Non c’è niente di più iconico e suggestivo, per riassumere la piega che ha preso la corsa alle presidenziali americane, del confronto tra due palcoscenici nelle primarie del South Carolina: quello del grande vincitore e del grande perdente.
Cominciamo dal perdente. Jeb Bush, l’uomo che per occultare un cognome un tempo foriero di consensi e di un’aura di presidenzialità e autorevolezza ha fatto del proprio nome di campagna elettorale il solo Jeb!, con il punto esclamativo, sabato ha ringraziato gli elettori con un discorso pieno di eleganza e di grazia e si è ritirato. “E’ la caduta della casa dei Bush”, ha scritto qualcuno. I Bush, dinastia imperiale di giunzione tra il passato inglese e l’identità americana, grande famiglia statunitense giunta in Massachusetts a metà del Seicento, nel gruppo dei primi coloni, che nel Novecento è passata dal New England ai vasti campi conservatori del Sud. Massachusetts, Texas, Florida: con un movimento nord-sud opposto a quello dei Clinton, che dall’Arkansas sono diventati newyorkesi, i Bush hanno simboleggiato il transito dei voti repubblicani dai vecchi stati della Rivoluzione alla cintura del sud. La corsa si è fermata sabato con il 7% di Jeb, fratello minore di George. “Nonostante quello che potreste aver sentito ultimamente, le idee contano. Le politiche contano", ha scandito Jeb dando l’addio alla presidenza.
Ed è una riflessione che la dice lunga su qual è l’incubo dei Repubblicani vecchio stile in questi giorni: Donald Trump. Il quale sabato festeggiava in South Carolina circondato sul palco dalla sua famiglia di allegri parvenu e biondone scosciate che ripetono a macchinetta “Make America Great Again” con l’accento di Britney Spears, in un tripudio di volgarità, buonumore ed energia.
Trump potrebbe farcela. Come riassume nel sito FiveThirtyEight il genietto dei numeri elettorali, il sondaggista Nate Silver, il magnate newyorkese:
- ha vinto agilmente due dei primi tre stati alle primarie;
- è in testa ai sondaggi in quasi tutti gli stati rimanenti;
- è in testa quanto a delegati (e il South Carolina era un winner-takes-all: tutti i cinquanta sono andati a lui);
- si è dimostrato molto più solido delle previsioni, che pure continuavano a profetizzare un imminente declino che non si è mai verificato. E’ ormai stabile al 35 per cento nei sondaggi nazionali per mesi e mesi.
La vittoria in South Carolina, in particolare, è eclatante e simbolica. Stato conservatore della Sunbelt, demograficamente giovane, nerbo atlantico del partito repubblicano che congiunge il nordest con il vecchio sud bianco, la South Carolina era il luogo dove potevano fare bene Rubio e Cruz. I quali hanno ricevuto complessivamente più voti di Trump (45 contro 32), ma è ovvio che non ha senso fare queste somme. Il più deludente appare ora Cruz: in uno stato dominato dagli evangelici, il candidato dei tea party è arrivato terzo. Frenetiche consultazioni hanno luogo in questi giorni cruciali nel campo dei Repubblicani: si riuscirà a pervenire a una candidatura “conservatrice” e “unitaria” per frenare l’homo novus?
L’altro ingrediente della novità-Trump è il basso costo che sta avendo la sua campagna. Mentre gli altri candidati, ingrassati dai soldi dei super-PAC, hanno speso fin qui somme che si aggirano intorno ai 60-70 milioni di dollari, l’uomo del business avrebbe contenuto i costi della sua corsa elettorale a soli 24 milioni, che (sebbene in una fase ancora iniziale della campagna) è davvero poco. Tra l’altro, sono in grande maggioranza denari che ha preso dalle proprie tasche di miliardario, non risultando così dipendente da alcun gruppo di pressione esterno, ma solo dalle proprie eclettiche e volubili inclinazioni. Dopo le gigantesche e sempre crescenti macchine elettorali degli anni Novanta e Duemila - da George W. Bush a Obama, a, ora, Hillary - è forse il primo, storico segno di un’inversione di tendenza. Che mette paradossalmente Trump accanto all’uomo che gli è più distante: Bernie Sanders. Il quale conta viceversa su centinaia di migliaia di minuscole donazioni, ma ha fatto dell’autonomia dalle lobby il proprio manifesto.
La corsa entra nel vivo. A poche decine di chilometri dalla Hoover Dam, edificata negli anni della Grande Depressione per contenere le acque del fiume Colorado nel più grande lago artificiale americano, e dare lavoro ed energia elettrica a basso costo a migliaia di americani, Hillary Clinton è riuscita sabato a contenere a fatica l’impetuoso torrente di consenso di Sanders nelle primarie del Nevada. Non era scontato. Ma si è trattato pur sempre di un caucus, e il margine di vantaggio della candidata democratica (cinque punti percentuali, settecento voti, quattro delegati) è esiguo. C’è chi dice anzi che la Clinton dovrebbe ringraziare Sanders, che contribuisce a mantenere il partito nel vivace dibattito e impedisce l'effetto-mummificazione di Hillary stessa, il suo richiudersi sulla candidatura di potere. Comunque la si guardi, a fine febbraio 2016 il campo della politica americana continua a essere dominato dalla protesta, a giocarsi sulle estreme. L'antipolitica esiste eccome negli Stati Uniti, il senso di disgusto e di frustrazione per il funzionamento difettoso della democrazia (quella "speciale tristezza" di cui parlava, due secoli fa, ancora Tocqueville) si animano come da noi: il 78% degli Americani disapprova il lavoro del Congresso, il 65 pensa che la nazione sia "sulla strada sbagliata", qualsiasi cosa voglia dire. Questi numeri sono la vera ragione per cui i candidati "outsider" stanno facendo così bene ad oggi. La casta, la rivolta, la rabbia e il sistema: qualsiasi cosa (non) vogliano dire, questi sono i termini di un lessico politico che devia dalla tradizionale dialettica destra-sinistra, e che nutrono il nostro presente, ormai da alcuni anni. Gli apocalittici e gli integrati, antica partizione di Umberto Eco che valeva per il rapporto tra cultura di massa e intellettuali, ma si può trasferire nell’agone della politica.
Poi, certo, ci sono sempre le cose che noi Europei fatichiamo a capire. Trump, innanzitutto: la sua estetica imbarazzante, le sue sparate, il suo delirio amatoriale. Com'è possibile che così tanti Americani lo amino? E' ironico per un Paese che ha avuto Berlusconi, ma in fondo è comprensibile. Ognuno ha i politici e anche gli showman che si merita, in linea con il sentimento culturale del paese, e non si può vestire più di tanto i panni altrui. (Se fosse per i Francesi gli Americani dovrebbero essere tutti come Woody Allen). Perché, poi, il governatore del New Jersey, Chris Christie, pragmatico e competente, non è stato premiato dagli elettori, che gli hanno preferito "l'uomo con la volpe sulla testa", come Seth Meyers chiamò Donald? Domande destinate a restare tali. Così continuiamo a guardare i campi scuri della Repubblica, quella nazione vasta e indefinita che si stende al di là dell'Hudson River e che Nick Carraway scrutava dalla sottile isola di Manhattan, affascinato dal suo mistero. Che a distanza di due secoli e mezzo resta intatto.
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