Le elezioni iraniane che hanno portato alla vittoria Hassan Rohani hanno suscitato in Occidente una certa soddisfazione. Il fatto che Teheran si sia liberata dal giogo estremista di Mahmoud Ahmadinejad ha portato le cancellerie europee e del Nord America a sperare in un’inversione di tendenza nei rapporti con quello che da sempre è per loro l’interlocutore più ostico tra Medio oriente e Asia centrale.

 

Si aggiunga che queste elezioni non sono state arrossate dal sangue dei manifestanti, come fu invece il caso del 2009. Segno che il voto si è celebrato in maniera sostanzialmente trasparente. Piaccia o no, il regime degli Ayatollah – pur ammantato della sua austera imperscrutabilità – è un sistema che dà voce all’opinione pubblica. È un Giano bifronte guidato da istituzioni inaccessibili per chi non fa parte del clero sciita, quanto sostenuto da un elettorato attivo e fiero di poter, attraverso il voto, esprimersi sulla propria leadership.

Ora però il problema non è legato a come funzioni l’Iran, bensì a quanto sia fondato l’ottimismo occidentale rispetto alla vittoria di Rohani. Possibile che tutto questo sia un’effimera illusione? È sufficiente cambiare il conducente per poter parlare di una nuova macchina iraniana?

1. La risposta a queste domande dipende dai presupposti che noi poniamo.

Presupposto 1: le speranze dell’Occidente sono di riaprire il dossier nucleare, rivederlo facendosi dare da Teheran le adeguate garanzie affinché il regime non voglia costruirsi il proprio arsenale nucleare e poi reinserire l’economia iraniana, con le sue importanti risorse di gas e petrolio, nel circuito internazionale.

Presupposto 2: con Ahmadinejad, Rohani o chiunque altro, l’Iran non rinuncerà mai al nucleare. Per una questione di orgoglio nazionale, ma soprattutto per la necessità di risolvere un significativo deficit energetico interno.

È stato calcolato che nel 2010, l’Iran ha consumato oltre due terzi della sua produzione di energia elettrica (213 miliardi chilowattora). Per un paese di 79 milioni di abitanti, con il 19% di questi sotto la soglia di povertà e un’economia monoproduttiva (essenzialmente idrocarburi) che cerca di diversificarsi, quella energetica resta una priorità assoluta.

Ora, al di là delle ambizioni militari – che senza dubbio esistono – l’Iran è convinto di poter risolvere i suoi problemi economici mediante un intervento massiccio sul nucleare civile e una vendita di risorse naturali sul mercato globale per fare cassa. Il piano però non può essere realizzato fino a quando la comunità internazionale, per volontà di Usa, Gran Bretagna e Francia – oltre ad altri governi europei – imporrà a Teheran un sistema di embargo ai suoi prodotti. Idrocarburi in primis. Senza le entrate dall’estero, il paese né può investire sull’atomica né può modernizzarsi. L’irritazione collettiva è spiegabile in questa maniera. Irritazione che porta l’opinione pubblica iraniana a chiudersi a testuggine intorno al regime.

2. Da sottolineare subito che, pur soggetta alle sanzioni, Teheran non può dirsi del tutto isolata. I rapporti con la Cina, la Russia e tanti altri partner asiatici – non da ultimo l’India – le permettono un’esistenza su alcuni quadranti economici del mercato globale. Sono le contraddizioni dei grandi giochi. Delhi è partner principale in Asia sia dell’Iran che degli Stati Uniti. Come pure contano gli Emirati Arabi, il cui saldo commerciale rappresenta il 32% circa di tutto l’export iraniano. D’altra parte, è vero che l’Occidente resta il potenziale maggior cliente dell’industria chimica di Teheran.

Hassan Rohani potrebbe essere l’uomo giusto al momento giusto. Il suo passato di mediatore per le trattative sul nucleare, durante il biennio 2003-2005, gli ha fatto guadagnare l’appellativo di moderato agli occhi delle cancellerie europee e nordamericane. D’altra parte quelli erano gli anni della presidenza Khatami, il cui intero mandato è ricordato positivamente.

Rohani, anche allora, disse senza mezzi termini che l’Iran non avrebbe mai rinunciato al programma nucleare. Un obiettivo voluto da tutti i suoi connazionali. Così come dalla costellazione di comunità sciite disseminate nella Mezzaluna fertile. In Iraq, Siria e Libano soprattutto. Un’operazione – o, meglio. uno scatto di orgoglio – in antitesi alle ambizioni egemonizzanti della maggioranza sunnita. In particolare contro gli opulenti emiri del Golfo.

E già così si è costretti a rivedere il concetto di moderazione attribuito a Rohani. A costo di passare per lombrosiani, è il caso poi di sottolineare l’aspetto estetico che differenzia il leader iraniano entrate da quello uscente. Ahmadinejad, per quanto non sarà elevato dalla storia come magister elegantiarum, è sempre stato un laico e come tale ha sempre sfoggiato gli abiti borghesi. Con Rohani, al contrario, si è tornati ai turbanti e alle barbe dei mullah. Ovvero agli stessi simboli del potere teocratico appartenuti a Khomeini prima, Khatami poi – sebbene moderato – e oggi al più temuto degli Ayatollah, Ali Khamenei.

Se poi qualcuno avanzasse una critica a un’analisi tanto esteriore, le repliche sarebbero che a) in Iran non si compie azione che non sia corredata da simboli; b) Rohani ha un trascorso da rivoluzionario della prima ora che fa impallidire il fanatismo di Ahmadinejad. La sua famiglia vanta dissidenti alla dinastia degli scià Pahlavi fin dagli anni Cinquanta. Egli stesso per due anni ha saggiato l’esilio, trascorso in Francia, guarda caso a stretto contatto con Khomeini. No, effettivamente nemmeno questo è sinonimo di moderatismo.

3. E allora perché l’Occidente è tanto contento di dover confrontarsi con lui prossimamente? Forse perché, nella nostra miopia, ci eravamo illusi che il problema fosse circoscritto ad Ahmadinejad e alla sua pletora di pasdaran. In tal caso sarebbe un grave errore sottovalutare gli altri centri di potere che compongono l’arcipelago politico ed economico iraniano. Ayatollah, pasdaran, forze armate e bazari. L’Iran, o meglio quella che gli iraniani tendono ancora a chiamare Persia, resta un mondo indecifrabile agli occidentali. E ogni volta che ci si avvicina e ci si illude di averne trovata la chiave di lettura, si resta sorpresi di essere di fronte a nuovi tratti chiaroscurali.

Rohani non è un moderato perché la moderazione non è una categoria che appartiene alla classe dirigente iraniana. Forse è un realista e come tale più propenso al confronto. Ma è presto per dirlo. 

(Continua -1)