Sono molti gli Americani, certamente una maggioranza, che sperano nel ripetersi dell’episodio che nel Giugno 1954, durante gli interminabili Army-Mc Carthy Hearings, produsse la memorabile condanna del Senatore Joseph McCarthy da parte dell’avvocato Joseph Welch.
Tutto avvenne nel momento cruciale di un battibecco con McCarthy, durante la deposizione di Welch in difesa dell’Esercito dalle accuse scagliate dal Senatore del Wisconsin nella sua crociata anticomunista. Welch apostrofò Mc Carthy con una domanda che è passata alla storia: “Senatore, non le è rimasto alcun senso di decenza?” Quella domanda segnò la fine dell’incubo rappresentato da McCarthy per la nazione tutta. L’America contemporanea, e di fatto una moltitudine di leader di Paesi alleati e amici degli Stati Uniti, si chiedono oggi se a Donald Trump sia rimasto un briciolo di decenza. Trattandosi di un Presidente eletto, la drammatica mancanza di decenza non può esser causa della sua esautorazione, ma lo stillicidio di rivelazioni sul comportamento del Presidente Trump nel completo dispregio di norme e tradizioni della presidenza non può che avere col tempo una risoluzione analoga a quella che segnò la fine dello sconvolgente capitolo maccartista. L’interrogativo che pesa sull’America è sul se, ed eventualmente come, Donald Trump finirà i suoi quattro anni di Presidenza, un mandato che già oggi viene classificato come il peggiore della storia americana.
L’equivalente dei famosi Army-McCarthy Hearings che potrebbe portare allo smantellamento della Presidenza Trump è l’inchiesta che viene condotta dallo Special Counsel Robert Mueller. Un’indagine che include gli affari economici e finanziari di Donald Trump, inclusi gli addentellati dell’intera famiglia Trump, e che Trump ha di fatto denunciato definendola una “violazione” del mandato affidato a Mueller dal Dipartimento della Giustizia. Trump non si è spinto a minacciare esplicitamente il licenziamento di Mueller ma lo ha fatto indirettamente contestando “molti altri conflitti” che a suo dire rendono l’investigazione “immorale”. Come se non bastasse, l’avvocato del Presidente, Mark Sekulow, ha fatto sapere che la nomina di Mueller potrebbe essere “illegittima”.
I crescenti attacchi contro la persona dello Special Counsel e del suo staff, che viene accusato di “conflitti di interessi”, rientrano ormai in una chiara strategia presidenziale volta a distruggere l’integrità di Mueller. Tra Trump e Mueller è in atto uno scontro che non può che aggravarsi man mano che le fughe di notizie (i cosiddetti leaks) ne aumentano il potenziale esplosivo. I difensori di Trump sono impegnati in una serrata operazione di copertura basata sulla denuncia dei leaks che svelano con incalzante continuità la rete di contatti intessuta dall’organizzazione elettorale di Trump con esponenti e intermediari russi. Tutto considerato, la strategia di Trump non può che avere un obiettivo preciso, quello di licenziare lo Special Counsel con l’accusa di conflitti di interesse facendo leva sulla pretesa che il Presidente abbia l’autorità per farlo. Ma Mueller fu nominato dal vice Attorney General Rod Rosenstein, che è l’unico a poter far cessare l’inchiesta.
La questione legale è di lana caprina anche perché i precedenti ne fanno in ultima analisi un affare politico. Negli anni novanta, i democratici si avvalsero dell’inchiesta condotta dall’Independent Counsel Kenneth Starr per mettere alle corde il Presidente Clinton. Gli schieramenti legali sono chiari: da una parte, i critici del Presidente denunciano gli attacchi della Casa Bianca nei confronti di Mueller come una pericolosa offensiva contro l’indipendenza del sistema giudiziario americano. Dall’altra, i difensori di Trump sono arroccati dietro l’argomento che l’inchiesta di Mueller non è altro che un’operazione sorretta da informazioni illegalmente ottenute circa una conversazione del Presidente con l’allora direttore dello FBI Comey. In aggiunta, insistono che più di una dozzina di assistenti di Mueller avevano a suo tempo fatto donazioni al partito democratico. Ciò basta, a loro dire, per bollare l’operato di Mueller e del suo staff come “una caccia alla streghe”.
Un aspetto intrigante della controversia che ormai accompagna l’inchiesta di Mueller è che Trump per molti versi applica la strategia del Presidente Clinton che riuscì a trasformare il processo di impeachment avviato con Kenneth Starr e dai Repubblicani in uno scontro politico piuttosto che legale. Clinton definì Starr un personaggio “partigiano” mentre la moglie Hillary inveiva chiamandolo strumento di una “vasta congiura dell’estrema destra”. Gli storici non esitano a chiosare che Clinton sopravvisse all’indagine grazie alla sua abilità nel fare di Kenneth Starr il “nemico”. E se la strategia riuscì, fu anche perché Clinton collegò politicamente Starr ai suoi avversari al Congresso, primo fra tutti l’allora Speaker repubblicano Gingrich. Ma questa volta il Presidente indagato è repubblicano, con un Congresso che è completamente controllato dai Repubblicani.
Le differenze sono sostanziali. Tanto per cominciare, lo Special Counsel è stato nominato dal vice ministro della giustizia e non, come Starr, da un gruppo ristretto di giudici. Secondo, il congresso è in grado di svolgere una propria inchiesta, come quella in corso presso il Comitato di Intelligence presieduto dal Senatore Richard Burr, un parlamentare rispettato, contrariamente ad un Gingrich che lasciò la presidenza della Camera in disgrazia. Ed ancora, mentre il peggior capo d’accusa a carico di Clinton era quella di aver mentito sui suoi rapporti con l’“intern” della Casa Bianca Monica Lewinsky, con Donald Trump sono in ballo la corruzione del processo elettorale americano e specificamente l’asserita collusione con i Russi. Di fatto, mentre l’accusa di “ostruzione della giustizia” nei confronti di Clinton era legata al suo tentativo di occultare un’infedeltà, l’ostruzione prefigurata per Trump è quella di aver fatto pressioni sul capo dello FBI Comey perché lo sollevasse dai sospetti di aver agito in combutta con agenti russi, l’accusa più seria che grava sulla Casa Bianca.
Se Trump spera di risolvere drammaticamente a proprio favore il mano a mano con lo Special Counsel Mueller esautorandolo dal suo incarico, ciò facendo non otterrà altro che accelerare il processo di disgregazione della sua Presidenza per il semplice fatto che né il Congresso né il Dipartimento della Giustizia potranno dichiarare chiusa la vertenza. L’unico sbocco sarà quello di una crisi costituzionale, che paralizzerà completamente il funzionamento del potere esecutivo americano. È una prospettiva che gli stessi Repubblicani non potranno ignorare, anche in mancanza di un ricorso congressuale all’esplosiva procedura di impeachment.
Resta il fatto che l’Amministrazione Trump è già paralizzata nelle relazioni con il Congresso, come dimostrano il fallimento degli sforzi volti ad eliminare e rimpiazzare l’Obamacare e l’incapacità di avviare la riforma fiscale, per non parlare dell’incertezza che regna sull’immigrazione, dopo il blocco imposto dalla Magistratura agli ordini esecutivi del Presidente. Il clima di assedio della Casa Bianca si è intanto incupito a seguito di nuove rivelazioni secondo cui il team legale della Casa Bianca starebbe studiando il ricorso presidenziale al “pardon” ossia alla grazia non solo per la sua famiglia e i collaboratori, ma addirittura per se stesso.
In ultima analisi, la gamma di opzioni disponibili al Presidente per scrollarsi di dosso i pesanti sospetti di collusione con la Russia si va drammaticamente riducendo. La prima opzione, e la più ovvia, è quella di screditare politicamente lo Special Counsel, facendo appello a quella parte dell’elettorato che ancora sostiene il Presidente. Ma ciò non basterà a far deragliare l’indagine, tanto più che Mueller ha l’autorità necessaria per procurarsi tutta la documentazione che ritenga pertinente all’inchiesta. Resta l’opzione estrema del licenziamento di Mueller, nello stile che rese famoso Richard Nixon ed il suo “massacro del sabato notte”. Nel mondo politico di Washington, eccezion fatta per gli irriducibili partigiani di Trump al Congresso, regna la convinzione che né il licenziamento di Mueller, né una pioggia di “pardons” fermeranno il cammino delle indagini sull’apparente “collusione” con la Russia. Ai termini della costituzione, spetta al Congresso decidere il destino di un Presidente sotto accusa. Ma anche se realisticamente mancano i numeri per destituire Donald Trump (occorre una maggioranza della Camera dei Rappresentanti e due terzi del Senato), non si può escludere che un’ondata di protesta per la crisi costituzionale scatenata dalla scarsa “decenza” di Donald Trump finisca per travolgerlo insieme al partito repubblicano nelle elezioni midterm del prossimo anno.
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