1. La politica estera degli Stati Uniti ha subito duri colpi d’immagine durante la crisi siriana, che per poco non ha sortito un azzardo militare. Allo stesso tempo, dalle macerie di quel fallimento d’immagine la diplomazia americana ha saputo estrarre dal cappello l’accordo sul nucleare iraniano, oltre che la neutralizzazione temporanea del problema siriano. In una prima fase ha assecondato Putin nel suo disegno di riguadagnare la scena sacrificando le armi chimiche di Bashar el-Assad e in una seconda ha aperto all’ouverture diplomatica del neoeletto presidente iraniano Rouhani.

L’apertura non ha convinto per nulla il principale (e forse unico vero) alleato americano nell’area mediorientale, Israele, che vede ogni accordo con l’Iran come il fumo negli occhi. Ma è dai tempi dell’insediamento di Obama alla Casa Bianca, e in concreto dall’intervento militare alleato in Libia, che la politica americana nell’area è mutata. Gli Stati Uniti stanno spostando il baricentro strategico verso il Pacifico e vorrebbero che a occuparsi di medio Oriente fossero gli europei.

2. Gli Stati Uniti stanno spostando il baricentro verso oriente per due ordini di motivi. Il primo è generazionale, il secondo più propriamente strategico. Se la generazione di George Bush padre era ancora fortemente legata all’Europa per storia e vocazione culturale, già la generazione di George Bush figlio (e dunque ancor di più quella di Obama) non sente più alcun legame stretto con l’Europa. Se Bush padre e poi Bush figlio si impelagarono nelle vicende del Golfo Persico, lo fecero in uno scenario di atlantismo scemante. Alla fine gli Usa si trovarono isolati, con la Francia e la Germania schierati con gli interessi energetici russi.

Il secondo motivo di disimpegno è strategico. La dipendenza americana verso il petrolio del Golfo è radicalmente scemata, mentre il guanto di sfida cinese all’egemonia planetaria è stato levato. L’elezione di Obama ha accelerato il processo, visto che il nuovo presidente è nato nelle Hawaii e cresciuto in California prima di andare a studiare sulla costa atlantica. Come americano di origini africane il suo legame emotivo con l’Europa è praticamente nullo.

Se a questi due motivi aggiungiamo la scarsa simpatia che lega gli afroamericani agli ebrei non liberal (che non sono maggioranza se non nelle università), non risulta difficile capire come l’attuale diplomazia americana possa infischiarsene delle rimostranze israeliane all’accordo con Teheran sul nucleare. Gli Usa sempre più vedono il Medio Oriente come un problema europeo. Sono disposti a dare una mano (se serve anche di più di una mano), ma l’Europa deve iniziare a vedere quest’area come un suo problema.

3. E qui veniamo al vero punto dolente. Se parliamo di Europa non possiamo che parlare della sua potenza egemone, ossia della Germania. Questo paese ha un rapporto a dir poco complicato con la questione ebraica che Israele incarna. Allo stesso tempo, la Germania è stata costretta dalla storia a rinunciare all’uso della forza militare in politica estera dopo il nazismo. Come può questo paese occuparsi della sicurezza di Israele rimane un mistero tutto da chiarire, che il ritiro americano dall’area rischia di complicare ulteriormente.

Potenza egemone suo malgrado, aggressiva quanto basta ma solo in materia economica, la Germania è una mina vagante in politica internazionale. Dovesse accadere qualcosa di spiacevole nell’area, è evidente a tutto che sarebbero di nuovo gli americani a doversene occupare. Loro malgrado. In passato gli europei hanno reclamato a gran voce un maggiore coinvolgimento sulla scena internazionale. Oggi che ce l’hanno, paiono non saperne cosa farsene.

Il futuro dell’Europa Unita è aperto. È in potenza, ma non è ancora potenza espressa, soprattutto in politica estera, dove gli interessi e le inclinazioni nazionali paiono davvero irreconciliabili. E questo è un problema in un momento in cui gli Stati Uniti si stanno riposizionando a loro vantaggio sullo scacchiere mondiale. Non si può riempirsi la bocca di “multipolarismo” chiedendo più spazio all’alleato atlantico e poi continuare a ragionare come se alla fine sarà sempre sua cura, e suo costo, intervenire a nostro favore. Non è un piano destinato ad avere un futuro.