Erano in molti ad aspettarsi sorprese dal Presidente eletto Donald Trump, ma la politica estera sembrava il settore meno confacente a colpi di scena.

Il sipario sulla prossima Amministrazione Trump si è appena levato che già si assiste ad una apparente militarizzazione della politica estera degli Stati Uniti attraverso la nomina di un generale dei Marines fortemente determinato in fatto di strategie come James Mattis a Segretario della Difesa, nonché di altri personaggi già in uniforme, come Michael Flynn, un guru dell’intelligence militare, a consigliere per la sicurezza nazionale, e Mike Pompeo, con radici a West Point e nell’esercito, a capo della CIA. Altri ex generali sono in corsa per gli incarichi di Segretario di Stato, di responsabile della Homeland Security e di direttore della intelligence nazionale. Ma è la telefonata di Trump a Tsai Ing-wen, Presidente di Taiwan, la mossa che ha spiazzato gli esperti di politica estera di Washington che hanno immediatamente preconizzato un periodo di turbolenti relazioni tra Stati Uniti e Cina. Una telefonata come quella di Trump, che risuscita la spinosa questione della One China, un interesse predominante di Pechino che Richard Nixon aveva abilmente addormentato, non può che scuotere a fondo quella leadership cinese che si era illusa di trovare un accomodamento con un neo Presidente “realista” a Washington, ad onta del poco accomodante atteggiamento di Trump per i rapporti commerciali. Il fatto stesso che un Presidente americano abbia avuto un contatto diretto con il Capo di stato taiwanese si presta ad interpretazioni e previsioni sull’intera gamma di rapporti sino-americani, che non possono prescindere da collaborazione sui versanti dell’Iran, della Corea del Nord e della politica globale per il cambiamento del clima.

Nella mente di quasi tutti gli osservatori di Washington risuona l’affermazione costantemente reiterata da Trump nella campagna elettorale di “sviluppare una nuova direzione per la politica estera del nostro Paese”. Trump ha associato questo impegno all’accusa rivolta ai dirigenti sia democratici sia repubblicani di aver prodotto “un disastro dopo l’altro in politica estera”. La scelta di Trump di avere al suo fianco ministri e consiglieri di spiccata estrazione militare non può che porre sul tappeto la possibilità che gli Stati Uniti cambino impostazione nel distribuire la loro potenza nel mondo.

Un primo pressante problema che si pone alla gestione “realistica” della politica estera della presidenza Trump è indubbiamente quello dei rapporti con la Cina. Il Presidente entrante non è un emulo di Henry Kissinger, ma certamente non può ignorare la formulazione realistica che Kissinger propugna per la politica verso la Cina: “Più di qualsiasi altra cosa, un ordine mondiale equilibrato e pacifico dipende da uno stabile rapporto USA-Cina”. In essenza, dunque, un rapporto cooperativo nel quadro di una politica dell’equilibrio di potenza cara allo stesso Kissinger. Di fatto, dietro il principio della cooperazione non è difficile scorgere un’altra esigenza, avvertita da quel settore politico al quale fanno capo i militari americani, quella di “contenere” il potenziamento strategico della Cina. Da ciò discende un altro interesse degli Stati Uniti, quello di cooperare con la Russia nel contenimento della Cina, basato sul comune interesse nel combattere il terrorismo islamico, nel porre fine al conflitto in Siria e nell’impedire all’Iran ed altri Paesi di acquisire armi nucleari. Di fatto, Trump ha da tempo segnalato l’opportunità di un effettivo “reset” nei rapporti con la Russia di Putin, apparentemente desiderosa di riaprire il dialogo con la nuova amministrazione repubblicana.

La Russia ha tratto vantaggi dall’indecisione dell’Amministrazione Obama ma certamente non è in condizioni tali da porre una minaccia agli interessi americani e neppure da sconvolgere l’equilibrio politico in Europa con una proiezione di potenza aldilà dell’Europa Orientale. D’altro canto, gli Europei hanno preso ampiamente nota di quanto affermato dal candidato presidenziale Trump circa l’obbligo che incombe sugli alleati di assumersi maggiori responsabilità per la loro sicurezza, una svolta che non mancherebbe di portare ad una graduale riduzione del contingente americano in Europa, con una eccezione per quelle basi che presidiano il bacino mediterraneo ed i focolai del Medio Oriente.

Resta da considerare comunque quale sia il prezzo che Putin potrebbe pagare per ottenere i suoi obiettivi. Questi sono la riduzione delle sanzioni imposte contro la Russia dopo l’annessione della Crimea, con relativa formale accettazione da parte degli alleati NATO dell’annessione stessa, ed il consolidamento dell’influenza russa nel Medio Oriente a seguito dell’intervento in Siria. Putin spera che Trump faccia seguito a dichiarazioni che sembrano adombrare un ripensamento in fatto delle sanzioni occidentali, uno sviluppo che i ventotto membri dell’Unione Europea accoglierebbero con pressoché generale favore.

Tra non molto, ne sapremo di più sul pensiero strategico di Donald Trump, un neo eletto Presidente che notoriamente è digiuno di esperienza internazionale e di fondamentali conoscenze di strategia. Ma il fatto stesso che Trump abbia deciso di circondarsi di militari lascia pensare i segnali lanciati durante la campagna elettorale circa un riesame delle alleanze militari dell’America, da quelle nel vitale ambito NATO a quelle altrettanto vitali nel Pacifico con il Giappone e la Corea del Sud, non avranno il seguito che gli ostinati detrattori di Trump prospettano in misura fin troppo allarmante. Di certo, la nuova amministrazione di Washington non potrà venir meno all’impegno assunto nei confronti della Polonia e del sistema di sicurezza europeo di stanziare un nuovo battaglione NATO in territorio polacco. Per quanto riguarda il teatro del Pacifico è scontato che Trump darà corso ad un altro importante impegno, quello di potenziare la flotta americana chiamata a proteggere i traffici nel Mare della Cina Meridionale, valutati attorno ai cinque trilioni di dollari. Si tratta di una regione di alto valore strategico nella quale la Cina ambisce ad assumere il controllo.

Il profilo della prossima amministrazione che emerge dalle nomine annunciate dal Presidente eletto è quello di un corso di azione “attivo positivo” in forza del superamento dei risvolti negativi, per non dire rinunciatari, della Presidenza Obama. Di fatto, è il superamento di quella strategia che John Mearsheimer dell’Università di Chicago ebbe a definire “egemonia liberale”, una strategia fallita, a detta dell’accademico stratega, per aver cercato di rovesciare regimi e di installare la democrazia in almeno sei Paesi del Medio Oriente (Afghanistan, Egitto, Iraq, Libia, Siria e Yemen) con il risultato di far divampare conflitti in tutti meno uno, l’Egitto, che è tornato ad essere una dittatura militare.

La conseguenza più durevole è stata quella di far nascere l’ISIS, un’accusa che Trump ha articolato non senza successo. Il Presidente eletto ha affermato ripetutamente di avere un piano segreto per sconfiggere l’ISIS ed ha aggiunto, significativamente, di attendersi un nuovo piano di azione dal Pentagono. La responsabilità affidata al Segretario alla Difesa Mattis ed al Consigliere per la sicurezza Flynn, entrambi ex generali, è direttamente collegata all’offensiva conto l’ISIS. Il contraltare è che un’offensiva più vigorosa – anche per via di una più attiva partecipazione di forze americane – potrebbe portare ad una intensificazione degli attacchi terroristici contro l’Occidente. Qualora il neo Presidente dovesse abbracciare una condotta realistica della politica estera e di difesa, come vari elementi fanno supporre, gli Stati Uniti finirebbero col perseguire un equilibrio globale di potenza, distinto dalla condotta di gendarme internazionale e da promozioni democratiche in Paesi che non le consentono. Europa, Asia Orientale e Golfo Persico sono le regioni dove l’equilibrio di potenza risponde agli effettivi interessi della sicurezza degli Stati Uniti. Ed è qui che Donald Trump è atteso alla prova.