Articolo originariamente pubblicato dalla nuova rivista del Torino World Affairs Institute (T-wai), "Human Security: Dimensioni e prospettive dei conflitti contemporanei", n.1 Luglio 2016, e gentilmente concesso ad Agenda Liberale per la ripubblicazione.
Di fronte ai conflitti leader politici e opinione pubblica si interrogano sul perché un mondo che conoscabene gli orrori e i danni della guerra finisca per ricadervi. Sovente l’analisi stessa delle componenti geopolitiche, così come insegnate sui testi base della disciplina, porterebbe a decidere per una condotta ben diversa: anche a fronte di una fredda analisi di pro e contro, il conflitto pare non avere senso. Com’è possibile dunque che qualcosa che “logicamente” non sarebbe dovuto accadere sia invece avvenuto? Il punto è proprio definire cosa sia o meno “logico”, e in particolare perché i leader prendano certe decisioni piuttosto che altre, o perché si comportino differentemente da come si pensa dovrebbero.
Se volessimo dare una risposta semplicistica, l’intera questione potrebbe racchiudersi nel concetto di “comprendere il punto di vista altrui”, cioè il fatto che le controparti in una disputa osservino una stessa situazione tramite lenti differenti. Nonostante l’apparente banalità di questa osservazione, all’atto pratico essa implica la padronanza di molteplici ambiti e discipline oltre alla semplice geopolitica in senso stretto. I conflitti, infatti, non avvengono per caso o contro ogni logica: l’uomo non è una macchina, ma le decisioni prese rispondono sempre a ragionamenti che coinvolgono una valutazione di causa ed effetto, di pro e di contro. Il punto è che tutto ciò è influenzato da valutazioni soggettive a loro volta condizionate da percezioni e preferenze. In altre parole, realtà analoghe o anche identiche osservate secondo schemi differenti portano soggetti diversi a conclusioni differenti e, dunque, differenti valutazioni su quale siano gli obiettivi ideali e quale la politica o la strategia ottimale da seguire. Ciò è tanto più vero in casi di conflitto o di disputa, dove fattori anche psicologici (paura, stress, fiducia eccessiva, ecc.) influiscono in maniera considerevole. In questa prospettiva, la comprensione degli aspetti di “psicologia politica”risulta essere un aspetto fondamentale – spesso più delle teorie geopolitiche tradizionali – in ogni tentativo di capire e di operare sul conflitto.
Lo scontro tra Russia e Occidente riguardo all’Ucraina è particolarmente utile per sostenere quanto appena argomentato, dato che si tratta di un conflitto che apparentemente non sarebbe mai dovuto avvenire. Russia e Unione Europea (UE) erano legate da un forte interscambio commerciale, da un comune interesse contro il terrorismo di matrice islamica e da interessi energetici sovrapposti che nel 2013 vedevano la Russia contare per il 39,3% del gas e il 33,5% del petrolio importati dall’UE. Mosca non può fare a meno della rendita ottenuta da tale export nemmeno a fronte di una crescita del mercato asiatico. Dai tempi della caduta dell’Unione Sovietica non esisteva poi più una seria contrapposizione tra Stati Uniti e Russia a livello globale e anche le dispute relative a Medio Oriente, Georgia e la stessa Ucraina (nel 2009-2010) non parevano poter mettere seriamente in crisi quello che sembrava un inevitabile dialogo continuo tra le due potenze, pur con qualche occasionale scossone.
Questa lettura della situazione tuttavia era solo quella occidentale e si dava per scontato che fosse condivisa. Nelle cancellerie occidentali è stato però tralasciato di valutare come questa stessa situazione fosse effettivamente percepita dall’altra parte, ovvero dai leader russi. Va detto che qui non interessa se la loro percezione fosse corretta o meno, se il punto di vista fosse realistico o distorto: ciò che conta è che, a torto o a ragione, la situazione in Russia è stata vista in maniera diversa. Il progressivo allargamento della NATO a Est negli anni 1990-2010, per esempio, è stato percepito come un tentativo per ridurre influenza e spazi di manovra geopolitici a Mosca, i cui leader, soprattutto in campo militare, ancora risentivano di quella che per loro era stata l’umiliazione del crollo della potenza sovietica. Senza voler scendere nei complessi dettagli dei rapporti Occidente-Russia, che ci porterebbero a un’eccessiva digressione, l’appoggio UE alle rivolte arancioni del 2009-2010 guidate da Julia Timoshenko e Viktor Yushenko contro il filorusso Viktor Yanukovich non venne percepito come il desiderio UE di favorire la democrazia nel Paese, ma semplicemente come modo velato per togliere anche l’Ucraina dall’orbita di Mosca.
In particolare, era il futuro di Sebastopoli (in Crimea) il vero fulcro della questione, dato che si tratta della più importante base navale a poter ospitare la flotta del Mar Nero. Il ritorno al potere di Yanukovich rassicurò un poco la Russia, ma le successive proteste di Maidanreinnescarono la paura russa di un colpo di mano occidentale. In teoria tutto si sarebbe potuto risolvere con un franco negoziato che garantisse gli interessi delle parti, Mosca inclusa. Sarebbe stata la mossa più logica per tutti. Ma perché non è successo? Perché si è arrivati all’annessione di fatto della Crimea, prima, e al conflitto nel Donbass subito dopo?
La ragione va oltre le semplici questioni geopolitiche e richiede di comprendere alcune dinamiche base. Ogni confronto diplomatico, a tutti i livelli, prevede il bilanciamento di tre tensioni che esistono sempre e sono strettamente legate, anche se non sempre hanno lo stesso peso:
- La tensione tra creare valore e distribuirlo. Una delle dispute principali era relativa a chi avrebbe avuto influenza sull’Ucraina, e in particolare su chi avrebbe controllato Sebastopoli. L’intera questione è sempre stata affrontata in un’ottica di distribuzione del valore che in casi simili finisce per esplicarsi in un semplice “o lo controllo io o lo controlli tu”. Questo ovviamente porta a vedere il confronto come un gioco a somma zero che ammette solo un’ottica manichea di vittoria o di sconfitta. Ciò necessariamente può soddisfare solo una delle parti in causa e quindi difficilmente può portare a un negoziato di successo. Pare invece non essere stata sufficientemente esplorata a monte del conflitto la via del creare valore, ovvero del pensare ad accordi che, indipendentemente dal controllo fisico del territorio, potessero garantire gli interessi UE (accordi più stretti con l’Ucraina, mantenimento dell’integrità territoriale della stessa) garantendo nel contempo gli interessi vitali russi (semplificando: controllo della base di Sebastopoli, mantenimento di accordi commerciali con Russia, Ucraina fuori dalla NATO). Tale approccio è stato preso in considerazione solo dopo lo scoppio del conflitto nel Donbass, di fronte alla difficoltà di ottenere una soluzione per via militare. La mancanza di dialogo per trovare un accordo dal quale tutti potessero trarre qualcosa ha dunque portato le parti a un approccio reciproco molto duro.
- La tensione tra empatia e assertività. Per quanto tutti gli attori di un confronto possano essere interessati a venire incontro alle esigenze altrui, tutti sentono allo stesso modo la necessità di non cedere più del necessario o di apparire deboli. È ovvio che più ci si di- mostra empatici verso l’altro, più si rischia di dare un’impressione di debolezza. Allo stesso tempo, però, più ci si pone in maniera decisa e assertiva, più si rischia di dare un’impressione di eccessiva chiusura. Il bilanciamento è vitale e nel caso ucraino l’aspetto empatico è stato quasi completamente assente. In uno scenario internazionale dove ancora rimane forte l’idea della “deterrenza”, Russia, USA, UE e NATO si sono affrontati unicamente con dichiarazioni e azioni forti, che hanno di fatto rafforzato i timori reciproci, a loro volta fonte di un ulteriore desiderio di deterrenza e quindi di asserzione delle proprie ragioni e della forza dei propri mezzi, portando a una percezione totalmente distorta – e tendenzialmente negativa - degli interessi altrui.
- La tensione tra esigenze di governo internazionale e interne. Tutti i governi devono bilanciare le proprie scelte con le proprie domande politiche interne e in particolare con le percezioni e le aspettative della propria opinione pubblica. In Russia il governo di Vladimir Putin, per continuare a mantenere il potereanche in periodi di difficoltà economica, ha bisogno di un consenso popolare che veda rivolgere l’astio e lo scontento verso un nemico esterno, in questo caso la NATO, che possa fungere – a torto o a ragione – da capro espiatorio. Dall’altra parte la NATO ha bisogno di mostrare la propria unità e potenza a difesa di alleati orientali (Polonia e Paesi Baltici su tutti) che dalla Russia continuano ad essere terrorizzati, pur cercando di evitare il conflitto che non è gradito agli europei occidentali.
Quello che si ha in questi casi, e che si è avuto in Ucraina, è perciò una situazione dove due contendenti non hanno visto (o voluto vedere) soluzioni di compromesso che potessero essere vantaggiose per entrambi, hanno creduto che l’unico modo di comunicare fosse tramite prese di posizione forti e aggressive e per di più sentivano di non potersi più tirare indietro per non perdere la faccia.
A questo punto per procedere nell’analisi torna utile introdurre un ulteriore elemento: la valutazione del cosiddetto “BATNA”(Best Alternative To a Negotiated Agreement). Il concetto si può spiegare con una semplice domanda: se il negoziato fallisce, qual è la mia migliore alternativa? Sono obbligato a negoziare a tutti i costi, anche a fronte di condizioni svantaggiose, o posso permettermi di rompere il dialogo e agire altrimenti? Qui le due parti si sono trovate in situazioni molto differenti, e il fallimento nel comprendere la visione russa ha portato la NATO a non accorgersi del rischio di conflitto imminente. NATO e Occidente credevano comunque che negoziare fosse la scelta migliore e, dal loro punto di vista, ciò era corretto. Forze insufficienti sul terreno, scarsa volontà dell’opinione pubblica di combattere, legami economici con la Russia che minavano la coesione degli alleati (incluso il fatto che l’Ucraina, non essendo nella NATO, non poteva pretendere un aiuto militare diretto): tutti fattori che portavano a pensare fosse meglio continuare la strada del dialogo.
Per Mosca invece la questione era diversa. Nonostante la Russia non fosse interessata a uno scontro diretto, posta di fronte a un dialogo che le appariva come inconsistente – ovvero una semplice scusa per imporle una riduzione di influenza tramite la rivolta contro l’alleato Yanukovich e l’estromissione della flotta russa da Sebastopoli – un conflitto limitato pareva un’alternativa migliore. Un modo col quale proteggere i propri interessi senza necessità di costosi compromessi e senza affrontare direttamente la NATO (dato che l‘Ucraina non vi appartiene), e anche per mantenere l’appoggio della propria opinione pubblica. Da qui la decisione diannettere la Crimea e di condurre il cosiddetto hybridwarfare a supporto dei separatisti del Donbass. Dunque il conflitto era l’opzione peggiore per la NATO, ma migliore per la Russia. Era inevitabile? Naturalmente no, ma la gestione della situazione da entrambe le parti ha chiuso progressivamente la porta ad altre soluzioni. Certamente anche Mosca ha mal considerato la risposta occidentale, in particolare le sanzioni economiche che stanno danneggiando l’economia russa soprattutto ora che il prezzo di petrolio e gas non consente più le rendite del decennio precedente. E certamente ora la via del dialogo è divenuta più appetibile.
Oggi ci si chiede se il futuro dei rapporti NATO-Russia e UE-Russia vedrà la risoluzione della crisi nel Donbass o un nuovo conflitto in Europa Orientale, magari coinvolgendo Paesi NATO come quelli Baltici. Anche in questo caso, prima di dare risposte definitive, è bene comprendere i punti di vista opposti. Quali sono gli interessi della Russia? Di fronte ai disaccordi esiste un modo per costruire valore comune valorizzando gli interessi di tutti senza, da un lato, essere ingannati o, al contrario, credere che l’avversario sia “malvagio” a priori? È possibile mantenere la deterrenza uscendo dalla spirale di provocazioni reciproche senza far perdere la faccia all’uno o all’altro? Si è in grado di comprendere come “l’altro” percepisce la situazione, tenendo conto della sua cultura e del suo background? La storia ci dice che è possibile, a patto che si ragioni sugli aspetti più attinenti alla dimensione umana e all’arte del negoziato piuttosto che limitarsi alla sola valutazione geopolitica. Serve dunque promuovere il dialogo e il confronto continuo tra le parti per evitare quanto possibile che il proprio punto di vista venga visto come l’unico logico e che questo accechi circa le intenzioni dell’altro. È probabilmente questa la non tanto nuova, ma spesso dimenticata – frontiera nell’analisi dei conflitti.
*Lorenzo Nannetti. Senior Analyst e Responsabile Scientifico de il Caffè Geopolitico, si occupa di Medio Oriente, NATO, Affari Militari e Sicurezza Energetica. Tra le sue collaborazioni, si ricordano quella con Wikistrat, network di analisti internazionali, con il Comitato Atlantico Italiano e la rivista Human Security di T-wai.
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