La crisi greca e l’approccio dell’Unione Europea  

L’approccio tenuto finora da parte dell’Unione Europea (e in particolare dalla Germania) nella gestione della crisi greca ha suscitato opposte reazioni da parte di analisti e opinione pubblica.

Da un lato, c’è chi ha criticato l’UE per essere stata troppo ‘dura’ verso uno dei propri stati membri, imponendo misure d’austerità eccessivamente severe. Dall’altro lato c’è chi osserva come i greci abbiano fatto di tutto per arrivare all’attuale situazione economica (bilanci pubblici falsati, scarsa credibilità di qualsiasi misura di rientro) e che quindi il paese ellenico andasse lasciato al suo destino, con un default ancora più clamoroso di quello concordato, nei fatti, in questi giorni e con una possibile ipotesi di uscita dall’area Euro.

Non vogliamo entrare nella discussione sulle ragioni dell’una e dell’altra posizione. Vogliamo invece sottolineare come il ruolo ambiguo dell’Unione Europea in quest’ambito abbia contribuito a rendere poco chiari gli obiettivi della propria azione e, di conseguenza, ad alimentare queste opposte critiche.

Risolvere, o quanto meno comprendere meglio queste ambiguità, sarà importante sia nell’immediato futuro (nel caso di altri interventi di rilievo, che potrebbero presto essere necessari per altri paesi come il Portogallo) sia per il medio termine, quando gli strumenti di intervento che si stanno delineando oggi verranno resi in qualche modo strutturali.

Crisi finanziarie e opzioni di intervento

Un’impresa in crisi finanziaria ha fondamentalmente tre opzioni davanti a sé: intraprendere una profonda ristrutturazione interna, fare ricorso a nuovi finanziamenti o andare incontro a forme più o meno definitive di fallimento (spesso fallimenti “pilotati” accompagnati da una profonda ristrutturazione possono portare alla rinascita dell’azienda in seguito ad un alleggerimento delle eccessive passività).

I paesi hanno, grosso modo, opzioni simili tra cui scegliere. L’Italia, ad esempio, in seguito alla crisi del ’92, ha scelto una strada sostanzialmente comparabile a quella della ristrutturazione interna; ha varato manovre incisive, riordinato un po’ i propri conti e onorato i propri debiti (che poi queste riforme non abbiano migliorato la capacità prospettica dell’Italia di generare reddito e che quindi i problemi non siano stati risolti in maniera definitiva è un altro discorso).

Si tratta di una strada che può comportare grandi sacrifici per il debitore, che sostiene interamente il peso della crisi. Allo stesso tempo, però, permette allo stato che la imbocca di non perdere credibilità e capacità di accesso al mercato del credito.

Per la Grecia, che si è presentata alle porte della crisi con bilanci falsati, conti pubblici eccessivamente in disordine, scarsa produttività e basse potenzialità di crescita, questa via è parsa subito impercorribile: occorreva un intervento esterno.

In questi casi le opzioni che restano sono un ulteriore ricorso a finanziamenti di terzi o il default (o un mix dei due). In analoghe situazioni di crisi legate al debito sovrano, l’accesso a ulteriori finanziamenti sui mercati può essere molto difficile o impossibile (se persistono dubbi sulla solvibilità del paese) e pertanto vi è un intervento del FMI, che fornisce risorse finanziarie per superare la crisi.

È ovvio che, come tutti i creditori, il FMI voglia massimizzare le possibilità di recupero dei propri finanziamenti, e pertanto imponga al paese beneficiario quelle misure che ritiene più consone a tale obiettivo (un po’ come una banca che eroga un forte finanziamento ad un’impresa in crisi pretende di avere voce in capitolo sulle strategie dell’impresa stessa). Non è sempre chiaro quali siano le giuste “ricette” per resuscitare un paese in profonda crisi finanziaria: misure severe di austerità possono garantire un maggior controllo sul comportamento del debitore (riducendo anche i problemi di azzardo morale) ma possono dare il colpo fatale alla sua economia, rendendogli più difficile onorare il proprio debito. Lo stesso FMI ha parzialmente modificato il proprio approccio alla questione, e se nella crisi asiatica del ’97 aveva propeso per misure molto dure, sembra ora orientarsi verso un atteggiamento più conciliante.

Trattandosi di fornire aiuti finanziari ad uno stato potenzialmente insolvente o di doverne accettare un (parziale) default, è ovvio che gli interessi dei creditori e dello stato in questione saranno potenzialmente contrapposti. Si assiste spesso a un bargaining che determinerà, anche in ragione delle condizioni di partenza e della forza contrattuale dei soggetti, condizioni più o meno favorevoli alle due controparti. Nel caso della crisi asiatica del ’97, ad esempio, le condizioni avevano tutelato molto i creditori e imposto duri sacrifici ai debitori.

 

Il ruolo dell’UE

Il fatto che diversi Stati Membri abbiano e stiano sperimentando situazioni di pesante dissesto finanziario ha spinto l’Unione Europea ad assumere un ruolo attivo nella gestione della crisi.

Se l’intervento si limitasse all’istituzione di Fondi (EFSF o futuro ESM) in grado di fornire risorse finanziarie a Stati Membri in difficoltà ed evitare che sia necessario l’intervento del FMI all’interno dell’Unione Europea, poco cambierebbe rispetto a quanto sopra.

Ci sono però almeno due aspetti che rendono la situazione estremamente diversa.

Da un lato, vi è la spinta a tutelare interessi nazionali da parte degli stati che partecipano alle operazioni di salvataggio. Anche il FMI ha tra i propri obiettivi la stabilità del sistema finanziario internazionale; ma Francia e Germania, per fare un esempio, hanno un interesse molto più diretto nel tutelare le rispettive istituzioni finanziarie che detengono titoli dei paesi potenzialmente insolventi. Questo rende i governi europei molto più sensibili agli interessi dei creditori; anche se il fatto non rappresenta di per sé un elemento negativo, occorre tenerlo in considerazione.

In secondo luogo, si cerca di vedere, o si vorrebbe vedere, negli interventi dell’Unione Europea una finalità in termini di politica economica che finora non possono avere. Se ci fosse stata una politica economica europea (e tralasciando i dubbi su una sua eventuale utilità e fattibilità) allora sarebbe stato lecito attendersi più clemenza nei confronti dei paesi in difficoltà.

Alla Grecia non sarebbero state chieste politiche pro-cicliche di tali proporzioni e si sarebbero concessi piani di rientro meno drastici. Per avere una politica economica comune, però, sarebbe stata anche necessaria una compartecipazione delle istituzioni europee alla definizione della politica economica; cosa ad oggi non possibile se non parzialmente e sotto la minaccia di interruzione dell’erogazione di fondi.

Così si procede lungo questa sottile ambiguità. L’Europa, tramite l’EFSF, presta soldi alla Grecia (e li renderà in futuro disponibili per eventuali altri paesi in stato di necessità). Siccome esistono forti dubbi sulla capacità della Grecia di rimborsare i prestiti, questi potrebbero, di fatto, trasformarsi in trasferimenti a fondo perduto. La cosa sarebbe anche accettabile all’interno di un’unione fiscale, ma risulta poco giustificabile e poco gestibile all’interno di un gruppo di Paesi autonomi e scarsamente coordinati sotto questo punto di vista. Si cercano quindi di creare dei meccanismi di coordinamento fiscale (ieri i criteri di Maastricht, oggi il “fiscal compact”) in grado di vincolare i singoli stati membri; ma l’efficacia di questi vincoli è stata scarsa in passato e pertanto la loro credibilità risulta ridotta oggi.

Ci troviamo, pertanto, in una situazione piuttosto complessa e ingarbugliata. Non è semplice capire quale sia la soluzione migliore per la gestione di queste problematiche. Sarebbe però utile riuscire a distinguere in maniera più nitida dove finiscono le azioni di supporto finanziario e dove iniziano quelle di politica economica. Un po’ come avviene a livello internazionale, laddove il FMI si occupa di sostenere i paesi in crisi finanziaria mentre le politiche di sviluppo sono di competenza della World Bank, sarebbe utile che anche nella futura architettura europea i differenti ruoli fossero ben separati.

Il futuro ESM dovrebbe avere come obiettivo quello di garantire la stabilità finanziaria nei paesi dell’Unione, con regole rigide e chiare sulle modalità di erogazione delle risorse e sugli obblighi riguardanti la loro restituzione. La Banca Centrale dovrebbe garantire la stabilità dei prezzi, e in seconda battuta il processo di crescita economica e la stabilità finanziaria. Le altre istituzioni europee (Consiglio, Parlamento e Commissione) dovrebbero occuparsi di impostare, laddove lo si ritenesse opportuno, politiche economiche comuni e di vigilare sulla loro implementazione.