L’American Dream è oggi ancora attuale e alla portata di tutti? Nella percezione degli Americani e di chi emigra o cerca di emigrare in America si direbbe di sì, ma i dati dimostrano come siano sempre maggiori le diseguaglianze interne alla società statunitense.

Se non fosse per il fatto che la psiche americana è contraddistinta da uno spiccato senso dell’ottimismo e dall’aspettativa che l’American Dream sia ancora alla portata di tutti, viene da chiedersi come il sogno americano possa continuare ad aleggiare in presenza della “inequality” che continua a crescere nel Paese. In parte, ciò si spiega con il mito di un’America che resta perennemente giovane, soprattutto al confronto con nazioni affette da senescenza come quelle dell’Europa, del Giappone e della Russia. Gli americani sono animati dal radicato convincimento di essere gli attori più dinamici sulla scena globale, sospinti dalla potenza economica e militare esercitata in quello che è stato giustamente definito il “secolo americano”. La storia insegna che la supremazia non è eterna e gli Americani dovrebbero tenerne conto rivolgendo uno sguardo al passato.  Ma gli Americani non sanno o non vogliono guardare indietro. È nel loro DNA nazionale attendersi una svolta positiva a breve scadenza, anche quando il quadro politico ed economico proietta pesanti incertezze e forti rischi.

Una cosa è certa, che i benefici della globalizzazione non ricadono sulla classe media americana nella misura in cui invece migliorano le condizioni di vita nelle società di altri Paesi industriali o di nazioni emergenti. Le diseguaglianze possono essere ricondotte a varie cause, ma non vi è dubbio che in America la principale è il cosiddetto “winner take all capitalism”, quel capitalismo cioè che non assicura che i benefici della sua ingorda espansione filtrino verso il basso alla classe media per non parlare di quella indigente. In una società liberale, come attesta il modello scandinavo, gli elementi basilari del capitalismo e socialismo convivono con il risultato di evitare gli abusi del predominio del capitalismo e di offrire a tutti le opportunità per le quali proprio l’America era celebrata e desiderata come lido di approdo di moltitudini nella sua storia. Gli Stati Uniti, beninteso, sono ancor oggi una nazione votata ad eguali opportunità per tutti coloro che vogliono conquistarsi una migliore esistenza con la volontà e la voglia di lavorare. Purtroppo, sono molti i segnali di deterioramento del “sogno americano”, esposti in questi termini da un osservatore qualificato come il premio Nobel per l’economia Angus Deaton: “la globalizzazione ha minato molte fonti tradizionali dei colletti blu (i lavoratori “blue collar”) e persino dei colletti bianchi, rendendo molto più precarie molte forme di impiego”. Deaton ha basato la sua analisi sulle preoccupanti statistiche concernenti la mortalità e morbilità degli Americani bianchi, di mezza età, non ispanici. Mentre in un gran numero di Paesi i relativi dati decrescono, negli Stati Uniti non si rileva alcun progresso da un quarto di secolo. Tra le cause del fenomeno, gli studi additano l’alcolismo, l’uso pervasivo di droghe e i suicidi. La conclusione è quanto mai scoraggiante: per molti Americani bianchi senza titoli di studio superiori, la speranza e l’aspirazione ad una vita migliore hanno ceduto il passo alla disperazione ed alla tossico dipendenza.

Tra le considerazioni che influenzano il giudizio di  quanti nel mondo osservano gli sviluppi della società americana balza innanzi a tutte quella di un sistema socioeconomico in cui da qualche tempo i bisogni della società sono spesso ignorati da una struttura capitalista orientata sul profitto individuale. Basti pensare all’abbandono di un sistema fiscale improntato alla progressività come quello degli anni cinquanta che mirava ad assicurare il finanziamento di infrastrutture a beneficio della comunità nazionale. Ed ancora, mentre il novanta per cento degli Americani auspica leggi per assicurare aria ed acqua pulite, il Congresso si propone di indebolire le misure esistenti. 

L’incerto futuro dell’America non è legato soltanto alla difficoltà di ridistribuire il prodotto nazionale a beneficio della classe media e dei meno abbienti, ma ad arrestare quello che Robert Reich definisce il processo di ridistribuzione verso l’alto. Reich, già Ministro per il Lavoro nell’Amministrazione Clinton, tesse un quadro impressionante della ridistribuzione in atto nel mercato americano. Tra le iniquità del sistema vi è quella del campo farmaceutico dove gli Americani pagano di più per le medicine che non gli abitanti di altri Paesi sviluppati. I proventi dei prezzi inflazionati vanno tutti alle grandi compagnie farmaceutiche che, tra l’altro, impediscono o ritardano l’introduzione di medicinali generici. Ed ancora, i costi del “cable” televisivo aumentano ad un tasso tre volte superiore all’inflazione con il risultato che gli Americani pagano per l’Internet molto più che non gli utenti nei Paesi europei e asiatici e dispongono di un ristretto numero di “provider” rispetto agli utenti di quei Paesi. I costi di ipoteche e prestiti per l’istruzione universitaria sono alti – sostiene Reich – perchè le cinque banche più forti negli Stati Uniti possiedono il 44 per cento dei beni finanziari, quasi il doppio rispetto al 2000. La spietata analisi di Reich tira in causa le grandi “corporations” nel campo alimentare e le compagnie di assicurazione, che hanno il potere di alzare i prezzi indisturbate. In breve, le “corporations”, le banche di Wall Street, i loro dirigenti ed azionisti hanno il potere politico di ridistribuire una gran parte del reddito nazionale verso l’alto, a loro totale beneficio. 

Da questa constatazione a sostenere che l’America ammirata nel mondo per la sua società libera, non classista e dedita alla meritocrazia sta scomparendo corre una sostanziale differenza. Ma è un fatto che una cospicua minoranza della società americana continua a perdere terreno e a condurre un’esistenza precaria. Lo prova del resto l’esistenza del programma dei “food stamps”, buoni federali per l’acquisto di viveri. Sono più di 45 milioni gli Americani assistiti, una conferma che il Paese più ricco del mondo conta una massa consistente di poveri.

Nel suo libro “The Price of Inequality”,  l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz punta un dito accusatore sugli Stati Uniti in quanto Paese che tollera il tasso più alto di diseguaglianza e la minore eguaglianza di opportunità tra i Paesi sviluppati. Sono gli interessi costituiti, padroni della finanza, denuncia Stiglitz, a distorcere un vero capitalismo dinamico. Vari studi sociali, tra i quali il più recente dell’Università di Harvard, attestano che la diseguaglianza colpisce in misura rilevante la popolazione di colore e di origine ispanica al punto che non soltanto il reddito di queste famiglie è inferiore alla media ma che le stesse famiglie  non hanno accesso ai migliori quartieri residenziali anche quando il loro reddito è pari a quello dei bianchi. L’impatto della qualità residenziale è particolarmente negativo per i giovani neri ed ispanici in quanto nega loro la cosiddetta “upward mobility”, con il risultato di incidere sulla diseguaglianza razziale per generazioni.

L’esistenza di un’altra America, dove la classe media è in sofferenza e dove la classe politica è polarizzata ed incapace di riprodurre il miracolo del New Deal, non può che riflettersi sulla leadership morale che gli Stati Uniti hanno esercitato ed in misura certamente minore continuano ad esercitare. Il mondo comunque continua a guardare all’America con fiducia a motivo principalmente della sua economia dinamica, innovativa, fiduciosa nel futuro e proiettata a nuove conquiste. È una fede condivisa da tutti coloro che emigrano o cercano di emigrare in America. Gli immigrati sono più di 45 milioni ed ogni anno il venti per cento dell’emigrazione globale sbarca in America. Per loro, il “sogno americano” resta un potente richiamo.