Del Presidente Trump numerose sono le dichiarazioni, spesso altisonanti. Molte meno le realizzazioni.
Il Presidente Trump non è a corto di iperboli ma in fatto di realizzazioni è piuttosto a secco. “Un nuovo capitolo della grandezza americana si sta aprendo”, ha annunciato con fiero piglio al Congresso. Di fatto, l’unica novità di quel discorso è che in esso Trump ha fatto ricorso alle normali convenzioni della comunicazione politica, avvalendosi dei servizi di uno “speechwriter”, ossia di un professionista dei discorsi. Quel che ha più sorpreso non è certo la reiterazione del dogma trumpiano di “America First”, ma il responso parzialmente positivo dei mezzi di comunicazione americani. Con poche eccezioni, i media hanno infatti preso atto di un mutamento del tono, ma non si sono chiesti come il Presidente repubblicano pagherà per gli imponenti progetti di riabilitazione delle infrastrutture e di potenziamento delle forze armate americane. Si calcola che il rinnovo delle infrastrutture richiederà all’incirca mille miliardi di dollari che saranno finanziati – afferma il Presidente – da capitali pubblici e privati. Al momento, nessuno conosce i dettagli del faraonico programma.
Vale la pena di ricordare che quattro settimane dopo l’assunzione del suo primo mandato nel 2009 il presidente Obama aveva varato il vasto programma di stimolo economico, la legge per l’assicurazione sanitaria ai bambini (S-CHIP), la legge per l’eguaglianza di retribuzione per le donne e tutta una serie di misure tra cui l’abolizione del divieto di ricerca con le cellule embrionali. Da Trump gli Americani non hanno ricevuto che una cascata di ordini esecutivi per drastiche restrizioni dell’immigrazione; per una revisione, ovviamente sfavorevole, della legge Dodd-Frank con funzioni regolatrici delle banche; per una netta riduzione dei poteri di regolamentazione attribuiti alle varie agenzie; per la costruzione del muro al confine con il Messico ad un costo che si preannuncia astronomico; per l’immediata ripresa dei lavori dell’oleodotto fortemente osteggiato che attraversa luoghi sacri degli Indiani; per il ritiro degli Stati Uniti dalla Trans-Pacific Partnership; ed infine, per l’attenuazione di “pratiche regolatrici” dell’Affordable Care Act, un primo colpo di piccone per la distruzione di Obamacare, la legge per la sanità nazionale, che verrebbe rimpiazzata, nelle intenzioni di Trump e dei Repubblicani, da una nuova legge - che al momento attuale non esiste, né appare vicina ad un accordo al Congresso - base su fantomatici “vouchers”, ossia di crediti che permetterebbero ai meno abbienti di acquistare un’assicurazione medica.
Sul fronte politico generale, il messaggio di maggior impatto che gli Americani hanno ricevuto da Donald Trump è questo: “non possiamo permettere che all’interno dell’America si formi una testa di ponte del terrorismo”. Né Trump ha tentennato sulla definizione della minaccia, identificandola con il “terrorismo radicale islamico”. E malgrado il ricorso a definizioni offensive per gli Islamici, alcuni commentatori hanno definito tale messaggio “ottimistico” e “presidenziale”, in virtù della differenza di impostazione con la fosca visione della “carneficina americana” evocata dal discorso inaugurale.
In verità, una carneficina è in atto in America. Le decisioni di Trump, prime fra tutte quelle per un aumento sproporzionato della spesa militare e per il rinnovo delle infrastrutture, segneranno un tracollo del cosiddetto “discretionary spending”, che toccherà un livello mai registrato fino ad oggi. I bilanci discrezionali di dipartimenti come quelli dell’interno e dell’energia, nonché dell’Agenzia per la Protezione Ambientale, verranno tagliati all’osso, con conseguenze nazionali ovviamente disastrose. La parte del bilancio federale che non include la spesa militare subirà una contrazione che si calcola potrà ammontare a 54 miliardi di dollari. I più colpiti saranno i programmi per la povertà e per la ricerca e sviluppo, in pratica tutta quella spesa che è catalogata nella rubrica “non security”. Non sono passati cento giorni dall’insediamento dell’Amministrazione Trump, ma quel che emerge chiaramente è la sostanza del monito emesso da Steve Bannon, l’ideologo che ha portato le sue idee dal sito di notizie Breitbart, un website “alt-right” dall’ideologia xenofobica e razzista, fino alla Casa Bianca. Bannon è l’ispiratore occulto di Trump, che l’ha voluto al suo fianco nel Consiglio per la Sicurezza Nazionale, dove non mancherà di influenzare la strategia nazionale con il suo stampo di conservatore ad oltranza. In una delle sue rare dichiarazioni, Bannon ha esaltato la “deconstruction dello stato amministrativo”, dove “deconstruction” è un neologismo perverso che sta per distruzione. L’alternativa non può che essere la costruzione dello stato di sicurezza. L’Amministrazione Trump è bene avviata in questa direzione. Il timore di qualcosa che può colpire il cuore dell’America, un senso di paura che Donald Trump ha saputo approfondire a proprio uso e consumo politico, prevale oggi sulle preoccupazioni circa l’ordine costituzionale e l’armonia delle componenti sociali.
L’elezione di Donald Trump è la diretta conseguenza del fatto che gran parte degli Americani – mediamente, con bassi livelli di educazione, in età avanzata e quasi esclusivamente bianchi – si sentono minacciati dall’avanzata del globalismo, del multiculturalismo e di modelli di vita assai diversi da quelli del loro passato. Questa insicurezza culturale li ha spinti ad abbandonare il partito democratico. È innegabile infatti che sono molti gli Americani che preferiscono la risolutezza ostentata da Trump in luogo della “political correctness”, mentre approvano la sua campagna che demonizza la stampa bollandola come liberale ed elitista. Questi Americani nutrono un profondo risentimento e si sentono emarginati all’interno del proprio paese nel sentirsi dire che i valori tradizionali sono “politicamente scorretti”. È l’interpretazione del fenomeno Trump che danno due sociologi, Ronald Inglehart dell’Università del Michigan e Pippa Norris di Harvard.
La narrativa della presidenza Trump si è già arenata intanto nello scandalo delle manovre di Putin per interferire nel processo elettorale americano. Lo stillicidio delle rivelazioni circa i contatti avuti dal team elettorale di Trump con funzionari russi, ed in modo speciale con l’Ambasciatore russo a Washington, Sergei Kislyak, ha fatto la sua prima vittima nella persona del Consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, di fresca nomina, costretto a dimettersi a seguito dei contatti avuti con l’Ambasciatore prima delle elezioni. Poi è toccato al neo Attorney General Jeff Session, che in una deposizione senatoriale ha negato di aver incontrato l’attivissimo diplomatico russo per poi essere smascherato e obbligato a ricusare la propria partecipazione in una possibile inchiesta sulle interferenze russe nella campagna elettorale del 2016. Da più parti si erano levate richieste di dimissioni di Session, che aveva avuto due colloqui con l’Ambasciatore quando era membro del Comitato senatoriale per le forze armate. Lo scandalo non risparmia neppure il genero del Presidente Trump, che aveva a sua volta incontrato l’Ambasciatore Kislyak durante la campagna elettorale.
Il Presidente Trump esce da queste vicende come un personaggio afflitto da pesanti contraddizioni. Mentre da una parte Trump si scaglia contro coloro che rivelano il dialogo con rappresentanti diplomatici di Putin minacciando di punire severamente le ”fughe” di notizie in proposito, dall’altra si rifiuta di dare chiarimenti sui contatti in questione, ma giunge ad affermare che si tratta di “fake news” ossia di notizie false, anche quando le rivelazioni sono incontrovertibili e causa di esautorazioni come quella del Generale Flynn.
Secondo il Presidente, Flynn era stato licenziato non per aver parlato con l’Ambasciatore, ma per aver tratto in inganno il Vicepresidente Pence assicurandogli che non si era discusso di sanzioni a carico della Russia. Particolare interessante, se il Vicepresidente aveva appreso del coinvolgimento di Flynn, ciò era il risultato non già di un controllo della Casa Bianca, ma di una rivelazione pubblicata dal Washington Post. Il quotidiano della capitale è uno degli organi di stampa che Trump ha definito “enemy of the American people”. L’espressione “nemico del popolo” ha un tragico significato storico, avendo portato alla liquidazione di centinaia di migliaia di Russi da parte di Stalin. Un commentatore ha acutamente osservato che di fatto Trump e i media sono “nemici non naturali” in quanto l’elezione del Donald rispecchia una simbiosi. La stridente campagna elettorale infatti ha arricchito il “news business”, mentre Trump ha cavalcato la tigre dei canali di “cable news”, che hanno praticamente portato il messaggio populista e nazionalista del candidato repubblicano nelle case degli Americani.
Resta da vedere se l’impressione di un ritorno alla normalità nel pericolante rapporto tra il Presidente e i media sia destinata ad impartire un effetto benefico alla Presidenza Trump. Una cosa comunque è certa, che l’interesse della nazione esige un’inchiesta bipartitica, credibile e approfondita, sul Kremlingate delle connivenze, reali o presunte, tra l’organizzazione elettorale di Trump ed il governo russo. Le possibili imputazioni sono infatti ben più inquietanti che non gli errori di Hillary Clinton nel trattamento di dati riservati attraverso “e.mail server” privati. Il presidente Trump dovrebbe essere il primo ad avallare un’inchiesta, se è vero – come sostiene – che si tratta di “fake news”. Se non lo farà, e presto, lo stillicidio proseguirà e la sua amministrazione rischierà di crollare come un castello di carte.
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