Benjamin Netanyahu non crede alla svolta moderata di Teheran. Cosa porta il premier israeliano alla diffidenza, ragioni strategiche o necessità di politica interna? O non si tratta piuttosto di un errore tattico?
1. In passato, c’è stato chi, nella community degli analisti, ha indicato Israele come il baluardo avanzato dell’Occidente contro la minaccia sciita iraniana. Il paragone si estremizzava nella proporzione Netanyahu sta a Churchill come l'Iran sta alla Germania nazista. In questo modo, si tendeva a sottolineare come l'allarmismo del “bulldog” britannico negli anni Trenta – allarmismo poi dimostrato valido – fosse equiparabile ai warning israeliani contro il regime degli Ayatollah. «Sottovalutando i moniti di Churchill, l’Europa è caduta nel baratro della seconda guerra mondiale. Cosa accadrà commettendo lo stesso errore nei confronti di Teheran?», la polemica si sviluppava più o meno in questo modo.
L’Iran del tandem Khamenei-Ahmadinejad, quindi l’Iran di pochissimi mesi fa, appariva negazionista dell'Olocausto e bellicista nei confronti dell’Occidente. Ma tutte le analogie storiche hanno un limite. I punti in comune fra la Teheran di Ahmadinejad e la Berlino di Hitler si limitavano all’antisemitismo e al progetto di ridimensionare, manu militari, il sistema-mondo a proprio vantaggio. Quella degli Ayatollah è un’ambizione spregiudicata e irricevibile. Come altrettanto erano i piani del nazionalsocialismo. Ma questo non basta per giustificare l’equazione Iran = Terzo Reich.
E se anni fa il confronto era insostenibile per ragioni di logica, oggi è la cronaca ad averlo smontato. Il passaggio di consegne della presidenza iraniana da Ahmadinejad a Rohani sta aprendo un nuovo corso. Sta mettendo in discussione l’ala intransigente del regime teocratico, quella con a capo la Guida Suprema, Ali Khamenei. E sta estromettendo dalla stanza dei bottoni i pasdaran, che avevano acquisito un notevole potere con Ahmadinejad. Il tutto a svantaggio di un premier Netanyahu, il cui confronto con Churchill oggi non ha più senso, se mai ne ha avuto. Tra gli stessi osservatori israeliani, che ancora ammirano l’illustre primo ministro di Sua Maestà britannica, c’era chi già nutriva dubbi sul paragone.
Anche per il leader israeliano la confutazione arriva dall’attualità. Nel suo intervento all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Netanyahu ha mantenuto quella inequivocabile posizione anti-Iran che lo sta accompagnando da quando è al potere. «Rohani è un lupo travestito da pecora», ha detto Netanyahu, facendo intendere alla platea che per Israele il cambio di cavaliere a Teheran non comporta il cambio di passo per il cavallo. L’Iran resta quello che è: un regime teocratico e oscurantista. Più in particolare antisemita e proiettato alla distruzione di Israele manu nucleari.
Primo destinatario di questo messaggio, ovviamente, non poteva che essere Obama, che telefonando a Rohani ha decisamente cambiato il corso delle relazioni diplomatiche Usa-Iran. All’attuale inquilino della Casa Bianca Netanyahu ha consigliato di fare attenzione. «Non si fidi, presidente», ha lasciato intendere.
2. In questo modo, però, il premier israeliano si è arroccato su posizioni di intransigenza che lo vedono per lo più isolato. C’è da chiedersi se non sia il solito Netanyahu che fa il muso duro in politica estera per accontentare un elettorato interno poco incline al dialogo e diffidente di qualsiasi mano tesa da parte del mondo mediorientale.
In Israele infatti nuovi fenomeni demografici ed etnografici stanno mutando l’identità politica e sociale del Paese. La crescente comunità russa e la collaterale presenza di immigrati dallo Yemen e dal Corno d’Africa (falascià) stanno minacciando i tratti del sionismo laico, democratico e socialista, definiti prima da Teodoro Herzl e poi messi in pratica da David Ben Gurion. Quella che riduttivamente chiamiamo comunità ultra-ortodossa appare per Netanyahu un interlocutore tenace, le cui richieste non possono che essere accolte obtorto collo. Il premier israeliano ha bisogno di consenso. E lo può trovare soltanto in una destra accanita, la quale non si convincerà mai che in Iran possano esserci dei leader quantomeno ragionevoli.
La chiusura va poi legata ai rapporti di forza militari. L’esercito israeliano, Tzahal, resta il più forte di tutto il Medio Oriente. Soprattutto ora che i suoi competitor tradizionali (le forze armate egiziane e siriane) sono sotto scacco. Alle sue “enne” testate nucleari nessuno può tener testa. Tzahal però teme il sorpasso da parte di chi al nucleare ambisce. Iran in primis. Non è escluso però che il problema si presenti anche con l’Arabia Saudita, visto il fascino che l’atomica richiama anche a Riyadh.
Del resto è comprensibile, Netanyahu dice che non basta una telefonata per aprire un dossier di democracy building in Iran. Non ha tutti i torti. A Teheran i diritti umani restano un qualcosa di vago e indefinito. L’establishment inoltre appare lontano dai canoni occidentali di classe dirigente. Anche da un punto di vista esteriore. Nelle nostre cancellerie sono stati dimessi da tempo mantelli e tonache. D’altra parte, è controproducente pensare di imporre i canoni occidentali di democrazia a chi è, e vuole rimanere, diverso da noi.
3. Il problema di Netanyahu è che ha commesso un errore tattico, mettendo i discussione l’intera struttura strategica israeliana. Ha preferito non avanzare, come al contrario ha fatto Obama verso Rohani. Questo però lo ha reso più vulnerabile. Perché, sulla scia dell’esempio siriano, la questione nucleare iraniana è possibile che proceda all’insegna dei trattati internazionali.
A questo punto non si può escludere un ricorso al Trattato di non proliferazione nucleare che secondo l’Onu l’Iran ha ripetutamente violato. Se ciò dovesse accadere non è da escludersi che in cambio il presidente iraniano pretenda che Israele firmi anch’essa il documento. E così Netanyahu sarebbe davvero messo alle strette.
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