1. Fervono i preparativi per il vertice europeo che si terrà a Bruxelles dal 28 al 29 giugno. Venerdì scorso si è svolto a Villa Madama un pre-vertice a quattro in cui Parigi, Roma, Berlino e Madrid hanno cercato di raggiungere anticipatamente un accordo di massima su come governare la crisi.
Dal vertice romano sono uscite le solite indiscrezioni e le solite rassicurazioni. In sostanza, l’elezione all’Eliseo di Hollande avrebbe riorientato l’asse delle alleanze europee spostandolo dal "rigore" voluto dalla copia Markel-Sarkozy alla "crescita" promosso dalla nuova coppia Hollande-Monti (accento sulla i).
Chi temeva un acuirsi della "austerità" è stato dunque rassicurato, per quello che tali rassicurazioni possono valere.
Se questo è lo stato dell’arte, si presenta un problema. L’opposizione fra crescita e rigore poggia su di una falsa dicotomia. In realtà, non solo si tratta di posizioni diverse pur sempre riconducibili alla medesima premessa - ossia che la crisi è contingente e che come tale è governabile a partire dall’economia - ma una volta espressa la premessa ci si accorge che non ha gran che a vedere con il problema che stiamo affrontando in Italia.
La crisi italiana non è contingente, ma sistemica. Ad aver collassato non è l’economia, ma il governo della cosa pubblica, se non addirittura l’intero assetto sociale che aveva retto i poderosi cambiamenti del periodo post-bellico. In altre parole la crisi in Italia è sociale, culturale, intellettuale, e di conseguenza economica.
2. L’opposizione crescita/rigore presuppone che per crescere bisogna investire, ma che non si può investire finche i conti non sono in ordine. Per mettere in ordine i conti occorre che i paesi maggiormente indebitati riducano il loro debito, sia interno che esterno. La discussione in corso verte dunque sull’entità e la durata delle politiche di risanamento nell’Eurozona. Secondo l'ottica tedesca, il risanamento dovrà essere profondo e durare a lungo, mentre per gli altri paesi sarebbe bene procedere immediatamente ad una seconda fase e investire subito in politiche di crescita.
Il problema di questa posizione è che non prende minimamente in esame l’incongruenza di fondo dei sistemi che sono confluiti nella zona Euro.
3. Quando e se il problema dell’incongruenza viene posto, è posto in genere come il problema della mancata unione politica dei paesi dell’Eurozona. Anche questo è un falso problema, perché se l’integrazione non c’è stata è perché l’integrazione non poteva esserci. Il vero problema è che nell’Eurozona sono confluite società diverse che solo in virtù di una spinta politica enorme ed eccezionale avrebbero potuto far convergere in un punto.
Questa spinta non c’è stata, e la crisi politica attuale, se ben gestita, avrebbe forse potuto generarla, vista l’eccezionalità della situazione. Invece non mi pare si possa dire la crisi abbia generato vera iniziativa politica al di là dei vertici intergovernativi.
La cosiddetta società civile tace, o mugugna, in Europa come nei singoli paesi europei.
4. In un momento in cui si dovrebbe discutere di politica europea nell’accezione più alta del termine, in Italia si discute su di un’altra falsa dicotomia, quella fra politica e antipolitica.
Tutti i sondaggi più recenti mostrano come almeno un terzo degli italiani oggi voterebbero per un partito non presente nell’attuale Parlamento. I partiti che hanno espresso rappresentanti nelle scorse elezioni chiamano "antipolitica" le posizioni prese da chi intende scalzarli.
La situazione non ha eguali fra le grandi democrazie occidentali. È come se negli anni scorsi si fosse eretto un muro che ha di fatto impedito la rappresentazione politica di settori consistenti dell’elettorato e che ora è in procinto di crollare. Invece di porre rimedio a questa situazione cambiando la legge elettorale che ha eretto quest’argine, la "politica" ha fatto finta di niente. La cosiddetta antipolitica è il risultato di questo arrocco. Le posizioni che esprime sono largamente comprensibili se si tengono nel giusto conto i privilegi che una casta chiusa si è concessa negli scorsi decenni.
5. Cambieranno le cose dovesse l’antipolitica eleggere rappresentanti in parlamento? Nessuno lo può sapere, ma francamente ne dubito. In ogni caso, non si sarebbe fatto un passo più in là nella soluzione del problema posto dalla (mancanza di) politica europea. Anzi, dovessero Grillini e Selzini essere eletti in massa al Parlamento, le posizioni da loro espresse non aiuterebbero di certo a trovare soluzioni al problema posto dalla necessità di integrare politicamente l’Europa, a meno che non si ritenga che sia arrivato il momento di far di nuovo prevalere gli interessi nazionali, se mai si è fatto qualcosa di diverso.
6. La situazione si fa grama per chi vedeva nell’Unione Europea la soluzione dei mali irrisolti dei singoli stati. Tanto che forse è arrivato il momento di dire che finché uno stato non ha raggiunto un certo livello, non di sviluppo economico, ma di compatibilità sociale con il modello europeo, è meglio che questo stato rimanga nell’Unione in posizione decentrata e probatoria.
È chiaro che una simile Europa a due velocità non sarebbe una Europa amabile e benigna. Ma non illudiamoci. L’alternativa potrebbe essere egualmente poco rassicurante. Non credo possiamo rimanere in questo stato molto più a lungo senza generare una reazione di rigetto nell’elettorato europeo.
Diciamoci la verità. L’Europa senza l’Italia non ha ragione di esistere. Ma l’Italia è un paese culturalmente arretrato e perfettamente inadatto a coordinarsi con le politiche di integrazione che invece sono ancora possibili fra i paesi del Nord europeo.
L’Italia è un paese ancora fortemente paternalista (si parla ancora di "giovani" quando bisognerebbe parlare di "diversità"); maschilista (l’esibizione della farfallina di Belen su di un canale pubblico è un indice di degrado morale che gli italiani neppure percepiscono tanto sono immersi in un discorso che svilisce le donne); familista (quanto è accaduto alla famiglia Bossi è un rigurgito di atavismo tutt’altro che raro in Italia); sessista (essere omosessuale in Italia non è reato, ma non è neppure considerato normale come nel resto dell’Europa evoluta) e votato alla preservazione dei privilegi di casta (la levata di scudi del mondo universitario all’applicazione di criteri meritocratici nell’elargizione di borse di studio è funzionale al mantenimento eterno dell’università della mediocrità di massa costruita negli anni settanta per distribuire prebende e mimetizzare la disoccupazione in entrata).
Un simile paese non merita di essere entrato nel XXI secolo figuriamoci se merita di stare in Europa.
Ma è un problema nostro. Non possiamo ancora pensare che la soluzione verrà dall’esterno come sempre è accaduto nella storia italiana. A meno che non vogliamo farci di nuovo invadere. Ma i tempi in cui si poteva chiamare in aiuto una potenza straniera sono finiti.
Dobbiamo quindi perseguire il rigore o favorire la crescita? Dobbiamo cambiare. La cosa che gattopardescamente abbiamo evitato di fare per tutta la nostra storia di nazione unita e che ora dobbiamo davvero fare. Ci riusciremo?
7. Potrei essere ottimista se almeno vedessi un timido barlume di cambiamento nel governo politico della crisi. Dobbiamo molto a Mario Monti per la riforma delle pensioni e per aver ripreso in mano le redini del governo della cosa pubblica. Ma la riforma del lavoro è stata ancora messa insieme al tavolo della concertazione tanto che non si vede nulla di particolarmente dirompente avanzare.
Eppure sarebbe bastato un solo segnale, una crepa nel muro di granella che tiene insieme il sogno italiano di rimanere negli anni settanta il più a lungo possibile, come se in quegli anni, gli anni dello Statuto dei Lavoratori conquista di civiltà, non fossero gli anni del tentativo di sottrarre consenso ai terroristi impiegando quante più persone possibile al livello più basso possibile. Oggi è cambiato tutto, persino la natura intrinseca del lavoro. Non è neppure lontanamente possibile che uno strumento creato nel 1970 per garantire l’occupazione di massa possa essere usato per tutelare i diritti dei lavoratori nel XXI secolo.
Su questo il Governo Monti sta facendo meno di quanto potrebbe fare, e soprattutto non sta trovando il linguaggio giusto per farlo. Manca di visione, di racconto, di obiettivi che si prefiggano di portare il mercato del lavoro, e quindi il paese, dall’età industriale all’età nuova in cui ci troviamo.
Forse è il paese a mancare di visione, ma è appunto compito della politica guardare avanti o perire nel tentativo.
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