It’s morning again in America. Era il famoso slogan di una pubblicità televisiva utilizzata da Ronald Reagan nelle presidenziali del 1984. Trentadue anni fa l’America reaganiana si univa intorno a un’epica del lavoro, del dinamismo imprenditoriale e manageriale, dell’ordinato tran tran della vita provinciale e suburbana.
La disoccupazione scendeva al 7% dopo i picchi della recessione; l’inflazione veniva domata dopo gli anni pazzi dell’era Carter; un nuovo ottimismo - reale o frutto di una sorta di doping dell’opinione pubblica, a seconda del diverso giudizio storico - pervadeva la nazione. E persino contee storicamente democratiche votarono in massa per la riconferma del presidente in carica. Sì, esistevano parti del Paese che non condividevano l’idillio del racconto reaganiano; erano molte, in verità. In West Virginia le miniere erano ormai chiuse; i controllori di volo che avevano scioperato erano stati licenziati in massa; a New York il crimine toccava nuovi record; i malati continuavano a necessitare di costose polizze private per la cura delle proprie malattie; l’America rurale, dal Midwest al Montana, sentiva fortissima la concorrenza delle nuove capitali del benessere, nella sunbelt atlantica e californiana.
Eppure era di nuovo mattina in America. La frustrazione era un sentimento ancora in larga parte alieno alle scelte elettorali. La facile soluzione offerta da Reagan - i problemi del quotidiano dipendono dalla crescita abnorme del governo, il debito pubblico è abbastanza grande da badare a sé stesso - copriva quasi ogni angoscia, ogni senso di depauperamento. Niente di comparabile con la infinita rabbia e l’odio e il desiderio di rivalsa che sconfina nei toni autoritari dell’America rurale di oggi era in corso. Cosa è successo in trentadue anni? Un giro tra Pennsylvania e Ohio rivela che dalla rustbelt, ovvero la cintura rugginosa degli stabilimenti industriali chiusi (che eppure esisteva già nel 1984), spira fortissimo un vento di ribellione amara, di diffidenza, di insofferenza. Di punizione. È questa la parola chiave. “Penso che dovrebbe esserci qualche forma di punizione”, aveva detto Trump parlando delle donne che praticano l’aborto. Una frase che ha rivelato freudianamente le intenzioni di tutto un blocco di elettori, non solo del candidato repubblicano e non solo riguardo allo specifico tema dell’interruzione di gravidanza. Vorrebbero punire Hillary (e con lei tutta l’America della diversità che le si raduna ansiosamente intorno) le migliaia di elettori bianchi che vivono nelle fattorie e nelle villette isolate, con il cortile pieno di cose rotte, il figlio portato al poligono fin da ragazzino, il quotidiano ancora consumato nel recinto della proprietà. Vorrebbero punire i liberal per il loro stile di vita, per le promesse non mantenute sulla realizzazione del sogno americano, per il proprio oggettivo impoverimento a cui danno una soggettiva risposta: è colpa loro. È colpa di Hillary.
Sulla strada che connette Bucks County - contea strategica della Pennsylvania, mezza agricola e mezza suburbana - a Philadelphia non si nota un solo cartello per il ticket Hillary-Kaine, ma una selva, una infinità di cartelli per Trump-Pence. Piantati in ogni giardinetto, in ogni cortile. Dipinti sui muri. Per Hillary l’epiteto più gentile è “Hillary For Prison”: in galera, come lo slogan becero e minaccioso ripetuto dalle folle raccolte da Trump negli stadi. “Lock her up”, sbattiamola dentro. Punire, questo vuole fare una parte di America, trovare un colpevole per la propria infinita frustrazione. Come in “Pastorale americana” di Philip Roth (ma con esiti e significati ben diversi) la grande domanda è: che cosa è andato storto? Chi, cosa ci ha ridotti così? Ma l’interrogativo, che in quel capolavoro della letteratura resta filosoficamente aperto, sospeso, dolorosamente insoluto, trova presso i ceti che si preparano a votare Trump una risposta semplice e violenta.
E così si arriva all’8 novembre, ovvero, la data odierna. Liana Finck, disegnatrice del New Yorker, lo chiama il giorno del giudizio. Così la pensano in tanti. I giochi sono aperti in molti stati, alcuni dei quali - come la Florida e il Nevada - possono essere condizionati dal forte afflusso degli ispanici ai seggi, in numeri che sembrano record. Altri - come l’Ohio, l’Iowa, il North Carolina - non sono determinati in modo così forte dalle minoranze e vivono più nettamente la partita interna a quel ceto bianco che si sente impoverito di cui si parlava prima. Trump ha promesso di fare perseguire la sua oppositrice dai giudici federali, se eletto. Ma anche se le elezioni, come predicono tutti gli aggregatori scientifici dei dati dei sondaggi, dovessero invece andare ai democratici, sappiamo che domani non sarà mattina in America. Già si parla di blocco della nomina del giudice mancante della Corte Suprema, di richieste di impeachment, di ostruzionismo esasperato, di denuncia di brogli elettorali. Di rappresaglie verso l’“altra” metà d’America. È il vento della punizione.
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