Il 26 giugno 2014 è stato emanato il decreto legge n. 92/2014, con il quale l'esecutivo Renzi si propone di affrontare uno dei dossier più spinosi e delicati: la riforma della giustizia penale. L'obiettivo è sia quello di migliorare le condizioni dei carcerati, visto il sovraffollamento delle strutture penitenziarie, sia quello di limitare il ricorso all'istituto carcerario.

1. L'iniziativa governativa non è isolata, ma è l'ultimo tassello di un disegno d'insieme messo a punto dal Governo italiano dopo la sentenza Torreggiani dell'8 gennaio 2013. Con tale pronuncia, la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo aveva condannato l'Italia per la violazione dell'art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Il dispositivo della sentenza intimava di "istituire un ricorso o un insieme di ricorsi interni effettivi idonei ad offrire una riparazione adeguata e sufficiente in caso di sovraffollamento carcerario".
Nell'ottica di adempiere a quanto sentenziato dalla Corte EDU, nell'estate 2013 il governo Letta aveva varato il primo dei provvedimenti "svuota carceri", rendendo più facile il ricorso alle misure alternative e innalzando la soglia sopra la quale poteva essere disposta la custodia cautelare. All'inizio di quest'anno il Parlamento ha convertito (L. 19 febbraio 2014, n.10) il secondo "svuota carceri", il decreto legge n. 146/2013, che aveva approntato alcune misure per ridurre la popolazione carceraria: inter alia, è possibile ricordare l'ampliamento dei reati per i quali è possibile fruire dell'affidamento ai servizi sociali, il potenziamento del "braccialetto elettronico" e l'estensione del beneficio dello sconto di pena per buona condotta da 45 a 75 giorni per semestre. Effettivamente, è stata conseguita una lodevole diminuzione della popolazione carceraria di circa 6000 unità: al contempo, tuttavia, tali provvedimenti hanno lasciato irrisolti alcuni problemi, nonché hanno subito alcune frenate applicative – fra tutte, lo scarso numero di braccialetti elettronici disponibili, fatto che ha depotenziato fortemente l'incisività della misura. La situazione italiana resta così alquanto drammatica: più di 58000 detenuti, a fronte di una capienza che, stando alle cifre fornite dal DAP (Dipartimento dell'Amministrazione giudiziaria), supera di poco i 44000 posti.

2. Ad inizio giugno, i giudici di Strasburgo, chiamati a pronunciarsi sull'esecutività della sentenza già richiamata, avrebbero potuto revocarne la sospensione e, nel caso in cui avessero giudicato inadeguate le misure intraprese, condannare l'Italia a risarcire i quasi 7000 soggetti che hanno presentato ricorso. Tenendo conto che i risarcimenti si aggirano in media intorno ai 15.000 euro, l'Italia rischiava fino a 100 milioni di condanna: un esborso pubblico notevole, nonché uno smacco sotto il punto di vista della credibilità internazionale. La Corte, tuttavia, ha rinviato la decisione finale al giugno del 2015, sottolineando i "significativi risultati" ottenuti con gli "svuota carceri".
Veniamo quindi alle novità del nuovo decreto. La prima va rinvenuta sicuramente nella previsione, all'articolo 1, di un risarcimento sotto forma di sconto di pena – un giorno per ogni 10 vissuti in violazione dell'art 3 della CEDU – per tutti i casi di sovraffollamento e/o di trattamento disumano, che, tristemente, riempiono le cronache quasi quotidiane. Lo sconto di pena, che viene concesso dal magistrato di sorveglianza, viene sostituto da una somma fissata in 8 euro giornalieri, nei casi in cui non è più possibile per il soggetto leso fruire della riduzione della durata della pena, poiché, per esempio, la condanna è già stata scontata. Le disposizioni transitorie contenute nell'art. 2 del decreto prevedono che l'azione di risarcimento possa essere proposta, entro sei mesi, anche da tutti coloro che hanno cessato di scontare la pena detentiva; questa previsione è destinata ad allargare notevolmente la platea dei destinatari, posto che il sovraffollamento delle carceri coinvolge, e ha coinvolto in passato, numerose migliaia di persone. L'istituto previsto parrebbe quindi andare nella direzione corretta, individuando in modo specifico forme di ristoro per trattamenti disumani. Esiste tuttavia il rischio che, in mancanza di altre misure che impediscano alla popolazione carceraria di espandersi, i risarcimenti si traducano solamente in un aumento dell'esborso pubblico senza minimamente contribuire a migliorare la condizione dei detenuti.

Inoltre, ai fini di una più efficiente gestione delle carceri, l'articolo 7 vieta che i dipendenti dell'amministrazione penitenziaria possano essere, nei due anni successivi, distaccati presso altre pubbliche amministrazioni. Tale dettato normativo è quanto mai opportuno, posto che la delicata e complessa vita quotidiana all'interno delle carceri impone che l'organico sia utilizzato al massimo delle sue potenzialità, e che non possa essere distolto per altre finalità.
Infine, resta da segnalare l'articolo 8, che interviene sul codice di procedura penale, riscrivendo il comma 2-bis dell'art 275. Si stabilisce che il giudice non possa applicare né la custodia cautelare in carcere né gli arresti domiciliari nelle ipotesi in cui ritiene che verrà concessa la sospensione condizionale della pena oppure che la pena detentiva sarà inferiore ai tre anni. In pratica, come chiarisce una nota del Ministero della Giustizia, "sarà il giudice ad esprimere in concreto una prognosi sulla pena concretamente applicabile all'esito del processo".
Probabilmente, sarebbe risultato maggiormente opportuno distinguere fra custodia cautelare agli arresti domiciliari e in carcere, vietando in modo drastico il ricorso a quest'ultima in presenza di elementi più oggettivi, e non aleatori, come la valutazione del magistrato. Infatti, la rilevante discrezionalità che permane in capo al giudice rischia, de facto, di vanificare ogni speranza riguardo all'auspicabile riduzione dei casi in cui viene disposta la custodia cautelare. A tal proposito, è doveroso sottolineare un'anomalia del sistema giudiziario italiano: quasi 20000 detenuti, e cioè più del 34% della popolazione carceraria complessiva, non sono condannati definitivi, essendo in attesa di giudizio oppure condannati in primo o secondo grado.

3. A meno di improbabili stravolgimenti in sede di conversione, i punti focali del provvedimento sembrano essere quelli appena delineati. Tirando le somme, il decreto non sembra avere una portata rivoluzionaria, ma contiene disposizioni nel complesso ragionevoli e corrette, anche se non troppo incisive. In particolare, permangono dubbi sull'applicazione che ne verrà fatta, anche in sede processuale, e sull'effettivo risultato che verrà conseguito in merito al numero dei detenuti e al miglioramento della loro condizione.
Esistono anche altre, importanti questioni che dovrebbero essere affrontate dal legislatore. A partire dalla possibilità di ricorrere a provvedimenti di amnistia e indulto, che, perlomeno nel breve periodo, contribuirebbero ad un non indifferente svuotamento delle carceri. Senza trascurare l'opportunità di procedere ad uno sfoltimento dei reati previsti dell'ordinamento, buona parte dei quali, pur costituendo fattispecie non violente, sono sanzionati con pene piuttosto elevate. Ciò che maggiormente preme sottolineare, comunque, è la necessità di un ragionamento complessivo sul disfunzionamento e sulle evidenti storture della giustizia italiana; per il bene dei carcerati, delle loro famiglie e dell'intero paese, queste problematiche meritano un'attenzione costante e non possono essere affrontate sempre e soltanto sull'onda dell'emotività mediatica oppure per scongiurare sanzioni economiche da parte di organismi sovranazionali.