L’edizione di quest’anno del Premio Giorgio Rota è stata dedicata al complesso tema dell’immigrazione. Federica Zito analizza il fenomeno del caporalato mostrando come, in alcuni contesti, i flussi migratori siano alla base di una vera e propria economia sommersa.
Sin dall’antichità, l’avanzamento delle tecnologie, le trasformazioni dei sistemi produttivi e delle organizzazioni sociali sono stati accompagnati e seguiti da movimenti migratori, alla cui base vi erano e vi sono complesse motivazioni economiche, sociali e culturali. Ciò che si vuole mettere in luce è l’esistenza di una vera e propria economia sommersa alla base di questi movimenti, la quale si rivela esplicitamente nel cosiddetto fenomeno del caporalato. Il caporalato rappresenta un’alterazione del processo economico dell’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, che caratterizza nello specifico le campagne meridionali italiane. Si tratta di un fenomeno rilevante e abbastanza complesso, tanto da essere considerato una emergenza socio – economica a livello internazionale, su cui però non si è anocora formato un adeguato livello di attenzione e azione di contrasto.
Nelle campagne agricole italiane il problema è di tipo strutturale. L’economia agricola stagionale, infatti, è legata ad un sistema produttivo oltremodo disorganizzato e arretrato, all’interno del quale la pratica del caporalato, sostenuta dai meccanismi distorti della speculazione della grande distribuzione e delle logiche di mercato, trova un terreno fertile per espandersi. Il caporale è la figura designata a svolgere una funzione di intermediazione sui campi, attraverso il reclutamento della forza lavoro immigrata allo scopo di collocarla presso i datori di lavoro, singoli o collettivi. Il caporale “guadagna” il proprio compenso impossessandosi di una percentuale (spesso vicina al 50%) della già di per sé misera retribuzione dei lavoratori. Le vittime del caporalato sono per lo più lavoratori stranieri immigrati, spesso senza regolare permesso di soggiorno, alla ricerca di un impiego che possa garantirgli la minima sopravvivenza. Si tratta quindi di soggetti vulnerabili dal punto di vista sia economico sia sociale. L’attività di intermediazione svolta dai caporali si manifesta come un vero e proprio dominio sui lavoratori, esercitato attraverso l’uso della minaccia, della violenza, dell’intimidazione e di pratiche di sfruttamento. Il lavoratore viene considerato come una res da sfruttare, una risorsa limitata da cui trarre utilità, che quando non ha più nulla da offrire perde il suo valore d’uso e pertanto può essere sostituita.
Dal punto di vista economico, il fenomeno del caporalato nel settore agricolo sottrae all’economia legale un flusso di denaro non indifferente. Con il processo di globalizzazione, l’introduzione delle macchine segna un avanzamento e una razionalizzazione produttiva che permette di abbattere i costi. La naturale e inevitabile conseguenza di questi processi è la perdita di molti posti di lavoro. In realtà, però, non va sempre così. Nel settore agricolo, infatti, si continua a fare uso di braccia. Perché? La risposta è abbastanza intuitiva: laddove i lavoratori sono disposti ad accettare salari miseri, persino l’impiego delle macchine risulta svantaggioso. Se non esistono controlli, il caporalato fa leva sui lavoratori stagionali stranieri per avere una rendita maggiore della stessa meccanizzazione.
Da molti anni la Sicilia rappresenta un crocevia per i migranti provenienti da più parti del mondo. Qui si restituiscono i risultati di uno studio che, condotto sul fenomeno del caporalato e dello sfruttamento della forza lavoro straniera nel settore agricolo nella zona sud – orientale dell’isola, mette in risalto analogie e differenze tra le province di Siracusa, Catania e Ragusa.
In provincia di Siracusa si trova Cassibile, un piccolo borgo di circa 7.000 abitanti, scenario per molto tempo delle lotte dei contadini siciliani che occupavano le terre dei feudi dei baroni. Qui il carattere stagionale del lavoro agricolo persiste negli anni. I caporali sono a volte ex – braccianti, spesso connazionali dei migranti, che si servono della forza lavoro immigrata per la raccolta delle patate. I proprietari delle aziende assumono giornalmente manodopera straniera, attraverso l’intermediazione dei caporali, sottoponendoli a pesanti turni di lavoro. Ogni mattina dalle 5:00 alle 7:00 i migranti vengono reclutati nella piazza principale o nei bar del paese per essere portati sul luogo di lavoro, per 9/10 ore giornaliere a fronte di un salario di 30/35 euro, da cui detrarre in media da 3 a 5 euro a persona per il trasporto nelle campagne. La media di raccolta è di 100 cassette di patate al giorno: chi non riesce a raccoglierle il giorno dopo non trova lavoro. Alle dure condizioni lavorative si sommano anche i disagi legati alle condizioni abitative e di pernottamento. Nel piccolo borgo è presente una comunità marocchina (stanziale) che facilita chi proviene dal Maghreb. Per loro, infatti, è possibile affittare appartamenti o stanze nel centro abitato. Gli altri lavoratori (sudanesi, somali, eritrei), invece, sono costretti a cercare rifugio in casolari di campagna abbandonati o allestire con tende e lenzuoli giacigli momentanei. La Croce Rossa e Medici Senza Frontiere hanno gestito per alcuni anni, fino al 2012, delle tendopoli in grado di accogliere circa 140/150 migranti e hanno prestato assistenza sanitaria per far fronte alle inadeguate condizioni igienico - abitative. Si è trattato di misure necessarie per migliorare le condizioni di vita, ma purtroppo non risolutive di una emergenza umanitaria estremamente preoccupante e grave.
In provincia di Catania, a Paternò, Adrano, Palagonia, cambia la terra sulla quale chinarsi, cambia il prodotto da raccogliere, ma le modalità di sfruttamento restano le stesse. Basta andare nelle piazze principali per vedere lavoratori stranieri di tutte le età essere caricati su furgoncini che si spostano per destinazioni più o meno vicine. A Paternò la maggioranza è rappresentata da lavoratori marocchini, in buona parte con regolare permesso di soggiorno. Stanno nei campi a raccogliere le arance per oltre 9 ore, circa 60/70 cassette di 20 chili, e percepiscono un salario di circa 30 euro al giorno, da cui, anche in questo caso, devono detrarre almeno 5 euro per il trasporto. Le condizioni abitative sono fuori da ogni norma: alcuni migranti si rifugiano in casolari e scuole abbandonate, altri costruiscono tende e usano teloni di nylon come giaciglio. Un caso particolare è rappresentato dai migranti che vivono nel Centro di accoglienza per i richiedenti asilo (CARA) di Mineo. Vivendo in condizioni d’indigenza, con un pocket money giornaliero spesso corrisposto in sigarette, questi migranti sono costretti a vendere la loro forza lavoro e, mentre nella provincia di Catania il salario si aggira da anni da 25 a 30 euro, per i richiedenti asilo che vivono nel CARA il salario si dimezza, poiché già ricevono vitto e alloggio.
Significativo è il fatto che il caporalato nella zona di Mineo prima non esisteva, ma si è diffuso con l’apertura del centro di accoglienza. I migranti ospiti del CARA presentano richiesta d’asilo: chi riesce ad ottenerla avrà i documenti, gli altri invece dovrebbero essere espulsi. Ma per avere una risposta possono passare da uno a due anni e altrettanti in caso di ricorso per il diniego. Durante l’attesa, la direttiva europea prevede il rilascio di un permesso temporaneo, affinché il migrante possa ottenere un lavoro. Ma il rilascio non sempre avviene ed è qui che i lavoratori decidono di consegnarsi ai caporali. La gestione dei CARA e soprattutto del lavoro migrante fa capire molte cose circa le forme che stanno assumendo nel contesto siciliano le strategie di governance dei flussi migratori. L’urgente bisogno di lavoro da parte dei migranti stranieri inseriti nel circuito della protezione internazionale ha incontrato le esigenze economiche dei contesti nei quali i centri per richiedenti asilo sono stati collocati ed il caso di Mineo ne è un esempio. L’effetto paradossale che emerge è quello di una ghettizzazione dei migranti che, sopravvissuti alla traversata del Mediterraneo, si trovano costretti a chiedere direttamente lavoro ai caporali.
In provincia di Ragusa le forme esistenti di sfruttamento agricolo riguardano principalmente lavoratori tunisini e rumeni nella cosiddetta “fascia trasformata”, cioè quella parte di territorio in cui alla coltivazione stagionale è stata sostituita la coltura in serra, nel triangolo che va da Vittoria a Santa Croce Camerina a Marina di Acate. L’emigrazione rumena è stata caratterizzata negli ultimi anni da una determinante femminilizzazione. Le donne sono protagoniste della filiera agricola siciliana, dalla raccolta al packaging, e rappresentano l’anello fondamentale dell’economia trasformata. Nel territorio ragusano la principale occupazione delle donne rumene è quella di operaie agricole: per circa 10/11 mesi l’anno devono affrontare e subire condizioni di lavoro drammatiche, subordinazione e violenze sessuali. Una volta arrivate nel territorio ragusano, in particolare a Vittoria, esse vengono messe a lavorare nelle serre per circa 14 ore al giorno, a fronte di una paga misera che si aggira intorno a 20 euro. Le condizioni abitative sono molto carenti. Spesso le lavoratrici vivono nello stesso luogo in cui lavorano, all’interno di catapecchie, in situazioni di promiscuità e costrette a pagare l’affitto detraendolo dalla paga giornaliera. Inoltre, sono soggette ad un duplice sfruttamento, poiché molte di loro finiscono oggetto di ricatti sessuali da parte dei datori di lavoro e dei caporali. Nell’isolamento della campagna, ragazze rumene sui vent’anni accettano di essere “offerte” ad amici e parenti in cambio della garanzia di mantenere il lavoro e di un incremento di 10 euro nella paga giornaliera. Rappresentativo di questa situazione è il fatto che Vittoria sia già da qualche tempo la città italiana con il maggior numero di interruzioni volontarie di gravidanza. A sostegno di queste donne non ci sono reti familiari o amicali, né esistono legami solidaristici tra le lavoratrici. Da un lato ciò è dovuto alla segregazione cui sono costrette, dall’altro alla concorrenza innescata dagli stessi datori di lavoro. In questo caso il confine tra costrizione e scelta è davvero sottile: pur di continuare a lavorare si continua a tacere. Il clima di indifferenza che si respira nelle campagne ragusane, lontane dalla vita della città, relega queste donne ad una condizione di isolamento ed invisibilità.
In conclusione, ciò che emerge chiaramente è l’esistenza di un lavoro “sporco” alla base del sistema agroalimentare italiano, che spesso rifiutiamo di vedere e dietro il quale esiste una manodopera “impresentabile”, vittima di continue pratiche di sfruttamento, che non raffigura altro che il riflesso di una gestione politica e umanitaria fallimentare e indecorosa. La ricerca condotta nelle province di Siracusa, Catania e Ragusa, legate da una storia comune di lotte contadine, occupazioni di terre, lotte contro la mafie e caporalato, mette in evidenza un’emergenza umanitaria che non può essere gestita solo attraverso l’allestimento temporaneo di tendopoli in prossimità dei campi o con la concessione di casolari abbandonati in condizioni di degrado.
Sono oramai anni che le stesse emergenze si ripropongono, ma ogni anno vengono affrontate con la stessa noncuranza e disattenzione. In un contesto economico e sociale sempre più complesso, la segmentazione del mercato del lavoro su base nazionale e di genere e la dequalificazione delle competenze dei migranti vengono accentuate ancora di più. Tutto ciò rivela un sistema di accoglienza fallimentare che nasconde le vere responsabilità di chi, nelle Prefetture, nelle Questure e nelle Aziende sanitarie locali, non ha fatto nulla per affrontare la tragica questione dei lavoratori migranti. Se le istituzioni fossero intervenute in tempo, probabilmente, oggi avremmo delle strutture di accoglienza adeguate e la situazione non si sarebbe deteriorata ai livelli attuali.
Da sola l’autorganizzazione di chi subisce il dominio dei caporali non può bastare ad arginare il fenomeno dello sfruttamento. Sarebbe necessario innanzitutto rivedere la politica legislativa nazionale e comunitaria in materia di migrazione, che risulta essere non priva di lacune e distorsioni. In secondo luogo bisognerebbe potenziare le reti di difesa legale, a livello locale, nazionale ed internazionale, allo scopo di garantire una protezione adeguata ai migranti. È bene ricordare che i caporali rappresentano uno degli anelli della catena produttiva, ma non l’unico. Di conseguenza l’attenzione deve essere rivolta anche alla responsabilità delle aziende, che si servono del caporalato per abbattere i costi e trarre profitto attraverso l’intermediazione illecita.
Dal punto di vista della produzione, negli ultimi anni in Italia hanno iniziato a farsi strada dei circuiti alternativi, dai prodotti di “Libera”, coltivati nei terreni confiscati ai gruppi criminali fino alle realtà riunite nei Gas (Gruppi di Acquisto Solidali) e alle associazioni che sostengono e lottano per la “sovranità alimentare”, che insegnano ai cittadini a essere consumatori consapevoli. Se questa strada venisse incoraggiata e percorsa quotidianamente, il consumo critico rappresenterebbe una risorsa ancora più utile per contrastare i meccanismi alterati della grande distribuzione.
È evidente che troppo poco spesso si pensa ai migranti come soggetti di diritto, che fuggono da guerre e disperazione con l’obiettivo e la speranza di ricostruirsi una vita e garantire un futuro a loro stessi e alle loro famiglie. Se si capovolgesse la visione dominante improntata alla xenofobia e al razzismo, se si sbrogliassero le matasse del passato e del presente e ci si ricordasse dell’importanza del rispetto verso l’altro, forse alcune pagine di cronaca, violenza e sfruttamento non verrebbero più scritte e ai migranti potrebbe essere restituita la loro dignità di esseri umani.
*Federica Zito ha conseguito la laurea magistrale in Sviluppo locale e globale specializzandosi in "Sviluppo politico e cooperazione internazionale". I suoi interessi di ricerca sono quelli dell’educazione allo sviluppo e della cooperazione internazionale. Il suo contributo per Agenda Liberale riprende alcune delle evidenze dell’articolo Migrazioni in Sicilia tra mobilità del lavoro e sfruttamento umanitario. Il caso sud-orientale inviato per la partecipazione al premio G. Rota.
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