In questi giorni si è fatta strada la voce che, a quasi due anni e mezzo dal loro ritiro, gli Stati Uniti starebbero per intervenire nuovamente in Iraq. A quanto è trapelato, non si tratterebbe comunque di un attacco di terra, quanto piuttosto di un attacco aereo mirato in appoggio all’esercito regolare iracheno. Il governo a prevalenza scita di Nouri Al-Malaki appare in grossa difficoltà nel fronteggiare gli insorti sunniti che operano ai confini con la Siria, e Obama non si può permettere, a pochi mesi dalle elezioni di medio termine, di assistere inerme alla partizione su basi settarie dell’Iraq.

Sarebbe comunque un errore far pesare sul presidente in carica le conseguenze della situazione irachena. Se qualcuno ha delle responsabilità, è l’Amministrazione repubblicana che nel 2003 decise l’invasione del paese mediorientale. L’interesse di quanto sta accadendo in queste ore, al di là della tragedia in corso, è tutto qui. Nell’immagine quasi perfetta che restituisce di quell’errore iniziale. 

1. Volendo nominare l’errore commesso dall’amministrazione neoconservatrice di George W. Bush nell’invadere l’Iraq, potremmo citare una passo del Secondo trattato sul governo di John Locke. “In the beginning all the world was America.” (All’inizio tutto il mondo era l’America” Secondo Trattato sul Governo 49).

Potrebbe sembrare un tantino arbitrario - e persino bizzarro, forse - partire da così lontano, ma il discorso neoconservatore è fondato proprio su di una riattualizzazione anacronistica di principi filosofici del diciassettesimo secolo. Non sarà sfuggito che dal 2001 in poi si è verificato un vero e proprio revival di interesse sul pensiero politico di Thomas Hobbes, il primo teorizzatore dello stato sovrano. Il motivo ha solo apparentemente a che vedere con la sollecitazione a cui è stata sottoposta la categoria stessa dello stato moderno in seguito agli attacchi dell’11 settembre 2001. Rispondere con Hobbes alle conseguenze di quell’attacco terroristico fu un errore teorico marchiano, se non fosse stato anzitutto una strategia discorsiva atta a fare regredire al diciassettesimo secolo il discorso politico sulla globalizzazione. Era infatti questo l’obiettivo politico dei neoconservatori.

Lo stato-nazione contemporaneo non si fonda sul discorso seicentesco di Hobbes. Quel discorso è una premessa necessaria, ma non sufficiente. Si fonda piuttosto sul costituzionalismo del diciottesimo secolo. Tornare a Hobbes fu una mossa per aggredire il costituzionalismo alla radice in modo da rafforzarlo in senso autoritario. Questa strategia, tipicamente conservatrice, dimentica, anzi, nega che lo stato americano si regga sull’attualizzazione, e quindi su di una interpretazione alla luce del presente, del dettato costituzionale e vuole imporre una interpretazione, quella conservatrice, come l’unica interpretazione legittima del dettato costituzionale. Dovendo quindi affrontare la globalizzazione, il discorso neoconservatore regredisce strategicamente al diciassettesimo secolo per poter attualizzare la costituzione in senso autoritario senza doverlo ammettere.

2. Allo stesso tempo, però, i neoconservatori sono conservatori solo fino a certo punto, oltre il quale sono loro stessi liberal. E in quanto tali, credono nella perfettibilità della società umana. A Hobbes loro assommano Locke. Se si creasse una tabula rasa sociale, e si ricostruisse ogni edificio istituzionale su fondamenta razionali, il risultato sarebbe una società illuminata capace nel tempo di autogovernarsi. È per questo che Locke riteneva che in origine tutto il mondo fosse (come) l’America, una terra abitabile, ma disabitata (se non da genti primitive, e quindi priva di civiltà). Non appena colonizzata, però, anche l’America prende la forma di ogni altra società (di stampo europeo, il modello preso a norma). Era quindi esiziale, per il pensiero liberale del diciassettesimo secolo, un atto fondativo (o rifondativo, in Europa) capace di regolare razionalmente l’edificio sociale. Ecco dunque l’urgenza di un discorso costituzionale fondato sulla ragione e non sull’oscurantismo assolutistico.

Aggredendo il costituzionalismo liberale con Hobbes, i neoconservatori giungevano quindi alla quadratura del cerchio: una sintesi ardita fra costituzionalismo liberale e autoritarismo hobbessiano. In origine tutto il mondo era l’America. Ma per giungere ad un mondo fatto ad immagine degli Stati Uniti, tutto il mondo doveva prendere la strada costituzionale ridefinita come obbedienza a Hobbes. L’unica fonte d’autorità che i neoconservatori ritenevano capace di contenere il caos scatenato dalla globalizzazione. Caos che, alla luce dell’11 settembre, ricorda il mondo pre-moderno in cui la vita era hobbesianamente descritta come “solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve”. Per uscire da questa situazione - per uscire della globalizzazione - occorreva un ritorno allo stato sovrano forte e autoritario, ma liberale e costituzionalmente fondato a immagine degli Stati Uniti d’America.

3. L’approccio anacronistico alla storia dei neoconservatori americani ha portato a una serie infinita di paradossi. Credendo di agire in un senso si è agito in un altro. Credendo di portare ordine nel mondo lo si è fatto piombare ancor di più nel caos. I neoconservatori possono continuare a negare a se stessi e agli altri l’errore marchiano compiuto nel pretendere che la globalizzazione regredisse al diciassettesimo secolo per poter rientrare, riveduto e corretto, al diciottesimo. Ma il fatto che oggi l’Iraq non assomiglia per nulla agli Stati Uniti dimostra palesemente l’errore di credere che fatto regredire all’età della pietra, ogni paese è l’America. Non è così. Gli Stati Uniti divennero una repubblica costituzionale in ragione della loro peculiare storia, che trae origine dal parlamentarismo inglese, riletto alla luce del repubblicanesimo machiavellico, prima che dall’assembleismo di origine protestante. Alla radice della storia del territorio chiamato Iraq c’è una antichissima rivalità che oppone sciti a sunniti e che ha come obiettivo l’instaurazione di un califfato pan-arabo, come i fatti di questi giorni stanno ampiamente dimostrando. Con buona pace di Hobbes e di Locke e dei neoconservatori americani e di tutti coloro che mettono fra parentesi la storia nell’illusione che l’umanità possa ricominciare daccapo a comando. Non è così. Ed è per questo che la posizione pragmatica presa da Obama è l’unica posizione attualmente possibile per la potenza americana. Una via di mezzo fra idealismo e realismo che agisce a fin di bene perseguendo i propri interessi strategici. Un paradosso. Ma quale politica estera non lo è?