Nell’immaginario collettivo degli italiani, l’espressione “finanza creativa” è associata all’imitazione di Giulio Tremonti fatta da Corrado Guzzanti in cui l’ex ministro dell’economia dei governi Berlusconi viene messo alla berlina per le ardite operazioni di ingegneria contabile, come le cosiddette cartolarizzazioni, con cui cercò di raddrizzare i conti dello Stato. Ma la tendenza a cercare scorciatoie per la cura dei conti pubblici, passando per alchimie contabili in luogo di riforme strutturali, è lungi dall’essere una prerogativa tremontiana. Anzi pare purtroppo un’abitudine sempre più frequente di governi di diverso colore e di diversi Paesi, come dimostrano alcuni casi recenti.

1. Volendo rimanere in Italia, la vicenda forse più eclatante è quella della rivalutazione delle quote della Banca d’Italia. Qui, il problema non sta tanto nella paventata privatizzazione, per effetto della quale istituzioni finanziarie straniere potrebbero acquistare quote della banca centrale italiana e così dettare legge nel nostro Paese: la Banca d’Italia rimane, a dispetto di popolari ricostruzioni di sapore complottistico, e a dispetto della proprietà formale del capitale, un’istituzione completamente pubblica, perché i suoi organi di vertice sono di nomina politica (e in generale l’accesso agli impieghi presso di essa avviene con i meccanismi del concorso pubblico).

La vera questione sta piuttosto nel fatto che, con un tratto di penna nascosto tra le pieghe del decreto IMU si aggiorna il valore delle quote, passando da un ammontare certamente anacronistico a un altro piuttosto arbitrario, e in effetti criticato da più di un autorevole economista perché eccessivo. Il risultato della complessa operazione costruita su questa base è, almeno secondo l’interpretazione più accreditata, un vantaggio immediato per il fisco, che incasserà denaro fresco supplementare, ma allo stesso tempo un notevole vantaggio anche per i proprietari delle quote rivalutate, che incasseranno negli anni a venire dividendi molto maggiorati.

Un’operazione, dunque, all’apparenza win-win, ma quando ciò avviene all’interno del perimetro pubblico, per effetto di un mero tratto di penna, rimane forte il sospetto che in realtà vi sia un costo a carico del contribuente, nascosto per l’appunto dalla "creatività" dell’operazione finanziaria in questione. Tale costo, rilevato perfino dalla Banca Centrale Europea in un parere espresso sull’argomento, consiste nel fatto che la Banca d’Italia, usando fondi pubblici, potrà riacquistare le quote, ora divenute commerciabili, così di fatto producendo una ricapitalizzazione senza che i proprietari delle quote debbano ricorrere al mercato dei capitali.

Nonostante molto sia stato scritto su questo tema, non sembra esserci invece ancora definitiva chiarezza circa l’impatto della rivalutazione sulla cosiddetta asset quality review in corso ad opera della BCE. Il dubbio è il seguente: nel misurare la consistenza degli attivi patrimoniali delle banche europee, per determinare se esse abbiano o meno bisogno di aumenti di capitale per rispettare i coefficienti minimi di patrimonializzazione imposti da Basilea III, la BCE terrà conto dei nuovi valori, improvvisamente innalzati? Chiaramente, per gli azionisti delle banche ciò sarebbe molto conveniente, perché renderebbe più improbabile la necessità di ricorrere ad aumenti di capitale e quindi la scelta tra un notevole esborso e la diluizione della propria quota.

Come detto, non c’è ancora chiarezza sull’argomento, ma il solo fatto che vi sia la possibilità concreta di tener conto di questo nuovo valore deciso unilateralmente dall’esecutivo ci dice quanto estesi siano i poteri del governo di interferire con i bilanci pubblici e privati, potendo esso cambiare completamente la faccia di un bilancio con un mero articolo di legge.

Del resto, l’impianto stesso delle norme sui requisiti di capitale contenute negli accordi di Basilea è di per sé un altro esempio clamoroso di finanza creativa. Basti ricordare che, nonostante la grave crisi degli spread iniziata nell’estate 2011, che ha tolto ogni residuo dubbio sulla possibilità che gli Stati sovrani falliscano, i titoli di debito pubblici sono ancora considerati esenti da rischio negli accordi di Basilea III (quelli risultanti dall’ultima revisione post-crisi): pertanto, ai fini della già citata asset quality review in corso ad opera della BCE, gli investimenti in titoli di Stato non richiedono di essere coperti da riserve di capitale, perché i regolatori hanno stabilito che gli Stati non possono fallire e quindi gli investimenti in debito pubblico sono sicuri al 100%.

Chiaramente, non esiste investimento sicuro al 100%, e come detto la crisi dei debiti pubblici dovrebbe aver mostrato che anche i titoli sovrani possono non essere rimborsati in toto. Eppure, anche qui con un tratto di penna, si manipolano i bilanci di banche e istituzioni finanziarie, stabilendo che è sicuro al 100% qualcosa che non lo è, mentre si decreta allo stesso tempo che pongono rischio massimo investimenti in debito privato che magari si riferiscono a società solidissime, con molto meno rischio di fallire di Stati ultra-indebitati, ma regolamentarmente “sicuri”.

2. Ma la “creatività” della finanza non finisce qui: è notizia sempre di questi giorni che a settembre cambierà il sistema europeo per la contabilità pubblica, con l’introduzione di nuovi criteri di valutazione delle spese, ora considerate investimenti in un maggior numero di casi, con il risultato di produrre un aumento “su carta” del PIL stimato per l’Italia tra l’1 e il 2%. Naturalmente la crescita sarà solo virtuale, contabile, ma c’è da scommettere che saranno in pochi a esserne a conoscenza.

Sempre a questo proposito, la battaglia ingaggiata dal governo italiano, qualche mese fa, per cercare di convincere (senza successo) le istituzioni europee a permettere all’Italia di non contabilizzare ai fini del deficit alcune spese da considerare come investimenti, non è che un altro esempio di (tentata) finanza creativa, quanto meno nell’accezione ampia di lavoro di fantasia sugli strumenti contabili per ottenere risultati desiderati in bilancio.

Analogamente, il sempre maggior coinvolgimento della Cassa Depositi e Prestiti (sempre più novella IRI) in aziende ritenute strategiche dal governo, ha alla base la finanza creativa: di fronte a un debito pubblico così alto come quello italiano, le regole europee vieterebbero qualunque allargamento del perimetro pubblico, ma le regole di contabilità non tengono conto delle partecipazioni detenute dalla Cassa Depositi e Prestiti, che quindi è lo strumento che consente al soggetto pubblico di estendere la propria interferenza sull’economia, senza che ciò venga registrato dalle norme contabili. Fatta la legge, trovato il classico inganno, sempre grazie a una finanza, se non creativa, certamente a maglie larghe.

Ma non c’è solo la CDP: si pensi all’operazione di parzialissima privatizzazione di Poste Italiane, dove, come ha scritto Franco Debenedetti, «una vendita del 40% equivale all'emissione di obbligazioni perpetue a rendimento variabile, che però non rientrano nel debito pubblico come definito da Eurostat». Del resto, un recentissimo rapporto del Ministero del Tesoro (basato su dati aggiornati al 2011) ha stimato in oltre 7.000 le società con una partecipazione pubblica, e in 2,2 miliardi la loro perdita di esercizio annuale complessiva (quattro holding di giunte locali sono responsabili da sole di quasi mezzo miliardo di rosso: a livello locale, in effetti, questo fenomeno è forse ancor più evidente). Tuttavia il buco non entra per ora nella contabilità pubblica italiana, per cui i calcoli sulla spesa ammissibile vengono fatti – creativamente – nascondendo sotto il tappeto una bomba pronta a esplodere da un momento all’altro.

È finanza creativa anche la concessione di garanzie statali ad aziende più o meno contigue con la politica: è il caso, come ricordava quest’estate sull’Espresso Luigi Zingales, delle garanzie concesse prima da Bush e poi da Obama a Fannie Mae e Freddie Mac; ma sempre in modo bipartisan, anche i governi Monti e Letta si sono distinti in questo tipo di interventi. Formalmente, non si tratta di sussidi, per cui il contribuente non ci rimette e il debito non aumenta, almeno nell’immediato; tuttavia, poi accade che Fannie e Freddie falliscano, e d’improvviso la garanzia debba essere onorata, per cui tutto a un tratto i nodi vengono al pettine (la situazione di MPS dovrebbe essere fonte di notevoli preoccupazioni al riguardo, alla luce del fatto che la garanzia statale fornita sulle sue passività dallo Stato italiano è per un ammontare di 13 miliardi).

Infine, finanza creativa sono molto spesso i derivati sottoscritti dagli enti locali, con il risultato di nascondere e posticipare un debito che emerge solo molto tempo dopo la stipulazione del contratto, producendo nell’immediato un beneficio sul bilancio il cui costo si manifesta solo più avanti nel tempo. E in tema di derivati, non si può non citare il famigerato aggiramento delle regole di contabilità pubblica europea effettuato dal governo greco per poter rispettare formalmente i parametri fissati come necessari per poter essere ammessi all’euro. Governo greco che oggi paga le conseguenze dei trucchi di allora, e ha appena visto diminuire la propria spesa pubblica solo grazie a un taglio degli interessi debitori dal 6 al 3% praticato con l’ennesimo tratto di penna dai creditori europei.

3. La pietra filosofale non esiste: ciò che è nero rimane nero anche se lo si chiama bianco, la sostanza delle cose non muta se ne muta la definizione, e appunto non esiste bacchetta magica in grado di trasformare una pesante situazione debitoria in un roseo scenario patrimoniale, se non sulla carta, e a fini meramente contabili.

Il ruolo dei commentatori non può che essere quello di denunciare questo vizio delle autorità politiche di falsare il termometro denunciando che il re è nudo quando un apparente miglioramento contabile non è che l’effetto di meri artifici matematici. La consapevolezza della reale entità di un problema è il necessario primo passo verso la sua soluzione: le opinioni pubbliche non tollereranno mai le pesanti misure che occorre prendere (e di cui finora non si è visto se non un assaggio), finché continueranno ed essere illuse dalla finanza creativa, e finché dunque non saranno consapevoli del reale stato di salute dell’economia e dei conti del proprio Paese.