Sintesi tratta dal working paper Wp/LPF 8_2014 Adjusting the Adjustment Programmes. International Financial Assistance During the crisis: Shaping the IMF template to Fit the Euro Area Countries
Il rischio di insolvenza sovrana
A partire dal 2010 i Paesi dell’Eurozona hanno varato misure senza precedenti per far fronte alla crisi finanziaria internazionale: per la prima volta sistemi economici avanzati e interconnessi hanno avviato un processo di aggiustamento macroeconomico nel contesto dell’unione monetaria.
A maggio 2010 la Grecia fu il primo Paese dell’Eurozona a ricevere assistenza finanziaria internazionale da parte delle istituzioni europee e del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Nel giro di pochi mesi altri tre Stati furono destinatari dello stesso intervento: l’Irlanda nel novembre 2010, il Portogallo nell’aprile 2011 e Cipro nel marzo 2013.
In ognuno di questi casi, i programmi di assistenza finanziaria vennero varati a seguito di una serie di accordi che prevedevano riforme da attuare da parte dei Paesi in questione. Si trattava di riforme che ricordavano molto da vicino le misure prescritte dal FMI ai Paesi dell’America Latina colpiti dalla crisi del debito degli anni Ottanta, misure ispirate alle politiche identificate come “Washington Consensus”.
Quali sono le motivazioni dietro la scelta di questo tipo di assistenza finanziaria da parte dei paesi dell’Unione Europea? E quale relazione intercorre tra i governi dei paesi dell’Eurozona e le istituzioni finanziarie che compongono la Troika? Per rispondere a queste domande può essere utile esaminare il contenuto dei programmi di aggiustamento concordati dal FMI con i Paesi dell’America Latina e analizzarne le modalità di negoziazione: se ne possono ricavare informazioni utili anche per il contesto dell’Eurozona.
Il FMI cambia pelle
Con l’esplosione della crisi del debito dei primi anni Ottanta, il FMI divenne di fatto il gestore delle crisi finanziarie a livello globale. Gli strumenti utilizzati durante le crisi precedenti non erano più adatti a far fronte agli enormi squilibri nella bilancia dei pagamenti, causati dal nuovo sistema di tassi di cambio flessibili. Il FMI estese dunque la propria azione agli squilibri macroeconomici, mentre assumeva gradualmente sempre maggiore importanza la sua funzione di sorveglianza sulle politiche economiche dei Paesi Membri.
Questa trasformazione del ruolo del Fondo coincise con lo sviluppo della pratica della condizionalità, che prevede che uno Stato attui una serie di politiche prima di poter ottenere assistenza finanziaria da parte del Fondo. La condizionalità dei programmi di prestito del FMI implica che il Paese in questione dimostri la volontà di porre in atto correttivi duraturi ai problemi strutturali che sono all’origine dei suoi squilibri interni. In quest’ottica, il FMI propose di subordinare l’erogazione dei prestiti agli arrangements concordati, che contenevano un programma economico formulato dal Paese destinatario con la consulenza del FMI. L’impegno, esplicitato in una “Lettera di intenti”, corredata da un “Memorandum di politiche economiche e finanziarie”, costituiva parte integrante dell’accordo.
In generale, i contenuti dell’impegno si concretizzano in obiettivi (performance criteria) il cui conseguimento è favorito dal fatto che i prestiti del Fondo non vengono erogati in una soluzione unica, ma in tranches di norma trimestrali. Le riforme prescritte dal FMI e poste a condizione dei pagamenti erano sostanzialmente le stesse per ogni Paese, si ispiravano alla filosofia neoliberale promossa dalle amministrazioni Reagan e Thatcher ed erano identificate come espressione del Washington Consensus. L’economista John Williamson coniò il termine nel 1989, compilando una lista di dieci riforme la cui attuazione avrebbe ottenuto “a reasonable degree of consensus” da parte di Washington, intendendo sia la parte “politica” (cioè il Congresso), sia quella “tecnocratica” delle istituzioni finanziarie quali l’FMI, la Banca Mondiale e il Federal Reserve Board.
I dettami del “Washington Consensus”e le critiche ricevute
Le prescrizioni del Washington Consensus si articolano intorno a tre idee fondamentali: la riduzione dell’intervento statale nell'economia, la privatizzazione/deregolamentazione e la revisione della politica commerciale. In questa prospettiva, le politiche legate ai programmi di aggiustamento in America Latina includevano riforme di disciplina fiscale (grandi deficit sono alla base di tutti gli squilibri macroeconomici), tagli alla spesa pubblica, liberalizzazione dei tassi di interesse e promozione di tassi di cambio competitivi, oltre alla liberalizzazione del commercio, alla promozione delle esportazioni e alla privatizzazione delle imprese statali.
Questo tipo di politica della condizionalità fu applicata per più di due decenni in contesti molto diversi tra loro: oltre che in America Latina, in Africa, in Europa dell’Est e in Asia Centrale. Ogni volta i provvedimenti suscitarono durissime critiche. Se infatti il FMI si muoveva nella convinzione che i mercati avrebbero portato ad un rapido aggiustamento macroeconomico, a condizione che non ci fossero interventi da parte dello Stato, la realtà dei fatti smentì in buona parte queste previsioni: in America Latina il debito crebbe da 231 miliardi di dollari nel 1980 a 417,5 miliardi nel 1990; gli oneri finanziari relativi all’indebitamento ammontavano al 34% delle esportazioni nel 1980 e al 42% nel 1990, il PIL pro capite registrò un crollo tra il 5 e il 10% nel corso del decennio.
Come sostenne a suo tempo Joseph Stiglitz, i mercati non sono in grado di produrre risultati efficienti quando l’informazione è imperfetta e i mercati incompleti, in particolar modo quando si tratta di Paesi in via di sviluppo. Inoltre, il FMI fu criticato per aver proposto una soluzione identica per tutti i Paesi, tralasciando le specificità dei contesti. La relazione tra il Fondo e i governi nazionali era poi estremamente sbilanciata: l’FMI imponeva le condizioni sui prestiti ad un governo insolvente nel mezzo di una profonda crisi economica, non lasciando così alternative alla controparte nazionale.
In generale dunque la politica del Washington Consensus venne ritenuta fallimentare: in primo luogo perché non seppe riconoscere il processo di sviluppo dei vari Paesi e poi perché si pose obiettivi circoscritti all’aggiustamento fiscale, con la conseguenza che vennero trascurati gli effetti negativi sul breve periodo nella convinzione che sul lungo periodo il processo di aggiustamento avrebbe giovato all’economia del Paese.
Perché anche in Europa?
Nonostante le critiche di cui fu oggetto, il Washington Consensus dimostrò una straordinaria resilienza nel tempo. Ne è testimonianza il fatto che i programmi di aggiustamento economico varati dalle istituzioni europee per gli stati membri dell’Eurozona sono sostanzialmente ispirati a quei principi.
Le ragioni di questa scelta sono riconducibili al contesto storico e istituzionale nel quale gli organismi europei e gli Stati membri si trovarono ad operare. All’esplosione della crisi dell’euro, l’Unione Europea non era dotata di uno strumento capace di affrontare la difficile congiuntura: una crisi allo stesso tempo del sistema bancario, della bilancia dei pagamenti e del debito sovrano. L’iniziale incertezza nella scelta delle politiche e l’intervento del FMI resero necessario il ricorso al modello già sperimentato di programmi di aggiustamento strutturale.
Con il precipitare della situazione in Grecia all’inizio del 2010, i Capi di Stato e di Governo si trovarono a dover fronteggiare nell’immediato il rischio di una destabilizzazione finanziaria in tutta la zona euro. Il 3 maggio 2010 fu così approvato il primo programma di assistenza finanziaria, attraverso il quale la Grecia riceveva un prestito di 110 miliardi da parte degli Stati della zona euro e dal FMI. Il prestito era condizionato a una serie di riforme strutturali che la Grecia si impegnava ad attuare. Le conseguenze del bailout greco si ripercossero velocemente in tutta Europa: altri Stati, che si trovavano in condizioni simili, dovettero ricorrere all’assistenza finanziaria internazionale, sempre in subordine alle riforme condizionali. A novembre l’Irlanda ricevette un prestito di 85 miliardi, mentre l’8 aprile 2011 un prestito di 78 miliardi di euro fu accordato al Portogallo. L’attuazione e la negoziazione dei programmi di aggiustamento macroeconomico furono affidate ad un organo tripartito composto da Commissione Europea, Banca Centrale Europea (BCE) e FMI, la cosiddetta Troika.
I programmi di salvataggio dell’Eurozona
Come i programmi di aggiustamento concordati con il FMI, i programmi dell’eurozona contengono una serie di provvedimenti economici formulati dal Paese richiedente e negoziati con la Troika. L’attuazione delle riforme viene valutata attraverso attività di monitoraggio e revisioni a cadenza trimestrale. Anche in questo caso i programmi includono politiche molto simili tra loro, tra le quali riforme della politica fiscale, volte alla riduzione del deficit, tagli alla spesa pubblica, liberalizzazione del commercio e di settori come quello dei trasporti, oltre alla privatizzazione delle imprese a partecipazione statale. Si osserva dunque una somiglianza tra i programmi di aggiustamento del FMI e quelli varati dalla Troika, sia per quanto riguarda le modalità di negoziazione e attuazione, sia per il contenuto del programma di riforme.
Un caso-studio: il Portogallo
A seguito di una analisi approfondita dell’esperienza portoghese, è stato possibile individuare una sostanziale differenza tra le due tipologie di intervento, soprattutto sotto il profilo delle modalità di negoziazione della lista delle riforme condizionali al prestito.
Se la relazione tra i Paesi dell’America Latina e il FMI era decisamente sbilanciata a favore del Fondo, nel caso del Portogallo il governo nazionale ha avuto la possibilità di negoziare i termini del prestito con la Troika. Tali negoziazioni iniziarono poco dopo l’approvazione del prestito per l’Irlanda, nel novembre 2010; in quei mesi il Governo del socialista José Socrates riuscì a rimandare la prospettiva dell’assistenza finanziaria, anticipando alcune misure di austerità nel proprio Paese. Ogniqualvolta la pressione dei mercati si faceva insostenibile, il governo approvava un set di misure di austerità volte a contenere il deficit del Paese.
Nel gennaio del 2011, mentre la crisi economica nella zona euro continuava ad aggravarsi e i mercati vedevano sempre più probabile un intervento sul Portogallo, le istituzioni europee e il governo portoghese concordarono una soluzione alternativa, ovvero un “memorandum ombra”, che permettesse al governo portoghese di evitare un programma formale, ma allo stesso tempo assicurasse alle istituzioni l’attuazione delle riforme ritenute necessarie per il Paese. Questa mossa avrebbe permesso di contenere le ripercussioni negative che erano state prodotte dal salvataggio greco prima e irlandese poi.
Dal febbraio 2011 i rappresentanti del governo portoghese ebbero dunque la possibilità di discutere a Lisbona con i tecnici della Troika i contenuti delle riforme da includere nel “memorandum”, che sarebbe stato presentato come prodotto unicamente dal governo nazionale. In questo periodo, al primo ministro portoghese fu riconosciuto un potere negoziale significativo nel confronto con le istituzioni europee e con gli altri capi di Stato, garantito in larga misura dalla segretezza delle negoziazioni.
Il risultato fu un ampio set di riforme presentato sotto il nome di Programa de Estabilidade e Crescimento IV (PEC IV), che ottenne il supporto del Consiglio Europeo nella seduta dell’11 marzo 2011. Tuttavia, a causa di una crisi politica interna, il PEC IV non superò l’esame del Parlamento portoghese e in quell’occasione venne respinto. A questo punto José Socrates, per quanto restio, fu costretto a chiedere assistenza finanziaria internazionale nell’aprile 2011. Solo allora le negoziazioni tra Troika e Portogallo per il programma di aggiustamento ebbero formalmente inizio. Il programma approvato nel maggio 2011 riprendeva in larga misura il PEC IV, conservando buona parte delle garanzie poste dal primo ministro durante le negoziazioni informali.
Dall’esperienza portoghese si evince che l’elaborazione del programma è stata fortemente influenzata dal complesso sistema istituzionale e politico dell’unione monetaria, oltre che dall’esigenza di mantenere la stabilità finanziaria. Sebbene l’opacità del processo di negoziazione dei programmi possa portare a fraintendere le dinamiche sottese ai provvedimenti, un’analisi più approfondita rivela che i governi nazionali, o almeno il governo portoghese, hanno avuto modo di negoziare (formalmente o informalmente) i termini dell’accordo con la Troika.
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