La famosa, o per alcuni famigerata, lettera di Trichet e Draghi dell’agosto 2011 conteneva com’è noto alcune misure chiave che si richiedevano con urgenza al governo italiano, in cambio di un intervento della BCE a sostegno dei titoli del debito pubblico di Roma. Significativamente, al primo punto, con l’obiettivo di rilanciare la crescita, figurava la seguente raccomandazione: «È necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala». Cosa è stato fatto da allora dai governi Berlusconi, Monti e Letta per soddisfare questa richiesta? E quanto è pressante il vincolo europeo al riguardo?

1. Il bilancio dei passi compiuti è assai presto fatto: sostanzialmente nessuno, e per una volta non è neppure colpa dell’inattività della politica. La lettera dei Governatori della BCE ometteva infatti di tenere conto dell’esito dei referendum sui servizi pubblici locali che si erano tenuti meno di due mesi addietro, il 12 e 13 giugno, e in particolare del primo quesito, riferito alle disposizioni che imponevano la messa a gara dei servizi pubblici locali, limitando la gestione cosiddetta in house da parte degli enti pubblici a situazioni eccezionali.

 

A seguito dell’abrogazione di tale obbligo per effetto dell’esito positivo del referendum, gli enti locali risultavano liberi di proseguire con le proprie gestioni in house: nella sentenza in cui aveva dichiarato ammissibile il quesito referendario in questione, la Corte Costituzionale aveva chiarito che, in caso di esito positivo, il referendum non avrebbe condotto la legislazione italiana sui servizi pubblici locali a porsi in contrasto coi vincoli derivanti in materia dall’ordinamento UE. Pertanto, dall’Europa, almeno secondo i nostri giudici costituzionali, non proveniva alcun obbligo giuridico a liberalizzare i servizi pubblici locali, e pertanto, almeno per quanto concerne il diritto europeo, le cose potevano rimanere invariate.

Tuttavia, in linea con moltissime analisi economiche, Trichet e Draghi evidentemente avevano individuato nella gestione diretta dei servizi pubblici locali da parte della politica una fonte di notevole inefficienza, responsabile di una quota significativa dell’indebitamento pubblico italiano, la cui crisi stava esplodendo in tutta la sua gravità in quelle settimane. Trichet e Draghi ritennero quindi di indicare al primo posto tra le misure da assumere proprio la liberalizzazione dei servizi pubblici locali, ovvero proprio ciò che si era tentato di fare con le norme appena abrogate dal referendum.

I giuristi si sono interrogati a fondo sulla natura giuridica e sul grado di vincolatività per il governo e il Parlamento italiani di un atto del tutto atipico come una lettera, per giunta segreta almeno nelle intenzioni, indirizzata dal governatore uscente e da quello entrante della Banca Centrale Europea al capo del governo di uno Stato membro dell’UE e dell’Eurozona. Nulla di tutto ciò è previsto nei Trattati europei, e dunque secondo l’opinione prevalente la lettera in questione era priva di qualunque valore giuridico vincolante nei confronti dell’ordinamento italiano.

Tuttavia, nel pieno dell’emergenza spread, il governo italiano scelse comunque di adeguarvisi sul punto, per giunta a tempo di record. Nella cosiddetta manovra-bis di Ferragosto, infatti, pur dichiarando formalmente di dettare norme di «adeguamento al referendum popolare», di fatto il governo reintrodusse con decreto-legge norme di liberalizzazione della materia. Il decreto fu poi convertito con modificazioni dal Parlamento, e ulteriormente modificato – sempre in direzione liberalizzatrice – dal governo Monti con il decreto liberalizzazioni e con quello “cresci Italia”, ma queste nuove norme furono immediatamente impugnate da diverse Regioni davanti alla Corte Costituzionale.

E la Consulta le ritenne effettivamente illegittime, con la sentenza n. 199/2012, perché sostanzialmente elusive del referendum, e quindi in violazione del «divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost.».

2. Da allora, il quadro normativo è rimasto essenzialmente fermo: il governo uscente Monti non ha più ripreso in mano il dossier sul finire della legislatura, e la nuova inedita maggioranza bipartisan uscita dalle urne a febbraio 2013 non ha al centro del proprio programma un’azione particolarmente incisiva sul punto.

Per di più, recentemente il complesso scenario si è arricchito indirettamente di un ulteriore tassello, un’importante sentenza della Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’UE, che contribuisce a precisare meglio i rapporti tra diritto europeo e diritto interno in materia di servizi pubblici locali, e se possibile rende ancor più lontana l’ipotesi che le liberalizzazioni in materia possano avvenire in Italia per effetto dell’appartenenza all’ordinamento UE.

La pronuncia in questione, pubblicata sul finire del 2013, è relativa al caso Essent ed altri (cause riunite da C-105/12 a C-107/12), e ha chiarito alcune rilevanti questioni interpretative che erano state poste dal giudice olandese, con riferimento alla legislazione dei Paesi Bassi, la quale prevede un divieto di privatizzazione delle società di distribuzione di energia elettrica e gas. La Corte europea ha affermato che, in via generale, occorre tener conto della disposizione del Trattato sul Funzionamento dell’UE secondo cui «i Trattati lasciano del tutto impregiudicato il regime di proprietà esistente negli Stati membri», per cui di per sé il diritto europeo non vieta né una nazionalizzazione (come affermato nel celeberrimo caso Costa contro Enel), né una privatizzazione (come affermato nel ben più recente Commissione contro Grecia, 8 novembre 2012).

Tuttavia, occorre contemperare questa disposizione con un’altra del Trattato sul Funzionamento dell’Unione, quella che vieta «tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri». Di conseguenza, le autorità nazionali (tanto il legislatore in sede di disciplina della materia, quanto i giudici in sede di verifica della sua legittimità) devono tener conto del fatto che un divieto di privatizzare le società di gestione dell’energia elettrica e del gas, quale quello contenuto nella legislazione olandese, costituisce in effetti una restrizione ai movimenti di capitale intra-UE.

Tali restrizioni come detto sono vietate, ma è prevista una valvola di sfogo, che le legittima, ove esse siano giustificate da «motivi imperativi di interesse generale» che inducano il legislatore a optare per una restrizione alla libera circolazione dei capitali. I giudici europei non si spingono oltre nel chiarire quali possano essere nello specifico dei “motivi imperativi di interesse generale” validi, lasciando ai giudici nazionali (olandesi, nel caso di specie) il compito di eseguire questa valutazione, ma ciò che rileva ai nostri fini è che la Corte lascia aperta la porta per un divieto di privatizzazione come quello contestato nel caso in questione, ritenendo che vi possano essere delle valide ragioni di interesse generale che lo giustifichino, evitando così che si ponga in contrasto con la libertà fondamentale di circolazione dei capitali all’interno dell’UE.

3. Quali conseguenze ha per l’Italia l’affermazione di questo principio? La sentenza in questione non ha effetti diretti sull’ordinamento italiano, essendo relativa alla legislazione olandese, che non ha una corrispondenza diretta con quella italiana in materia. Tuttavia, l’affermazione è potenzialmente foriera di effetti anche nell’ordinamento italiano. Essa porta se non altro a escludere che una spinta vincolante alla privatizzazione/liberalizzazione dei servizi pubblici locali nel nostro paese possa giungere dalle istituzioni europee.

In un precedente articolo, ho avuto modo di sottolineare i notevoli contributi che il diritto dell’Unione Europea ha portato all’apertura dei mercati e all’aumento della concorrenza in Italia in molteplici settori e sotto molteplici aspetti. Tuttavia, l’ambito dei servizi pubblici locali rimane abbastanza estraneo all’influsso pro-mercato che il diritto europeo ha avuto in altri campi. Ciò era già stato messo in luce dalla nostra Corte Costituzionale nella ricordata pronuncia di ammissibilità dei referendum del 2011, secondo cui il diritto europeo non imponeva la liberalizzazione per cui aveva optato il legislatore italiano, per cui era legittima una scelta di politica legislativa di tipo diverso, come quella effettuata dai promotori del primo quesito. Ora, con la sentenza Essent, è la Corte Europea stessa a confermare questa linea di tendenza, stabilendo che perfino un divieto assoluto di privatizzazione delle società di gestione di servizi pubblici locali può essere giustificato alla luce del diritto europeo.

Se liberalizzazione e/o privatizzazione dei servizi pubblici avrà da essere nel nostro paese, dunque, ciò dovrà avvenire sulla base di una scelta politica tutta interna (che in qualche modo tenga conto dei referendum del 2011); ma a differenza di altri settori, non vi sarà alcun tipo di vincolo in tale senso da parte delle autorità europee, che potranno al più limitarsi ad un’opera di moral suasion, tramite lettere più o meno segrete.