Il 12 maggio scorso si sono svolte in Iraq le elezioni politiche, le prime dopo ISIS. La vittoria di Moqtada al-Sadr, in parte sorprendente, riporta con forza al centro dell’attenzione il tema degli equilibri tra grandi potenze estere e gruppi di potere locale in Medio Oriente. Moqtada al-Sadr, infatti, pur essendo uno sciita è sgradito a Teheran, per anni lottò contro gli Stati Uniti e ha compiuto passi in avanti concreti verso il principe saudita Mohammed bin Salman.

Pochi giorni fa i risultati finali delle elezioni irachene del 12 maggio hanno sancito in modo ufficiale la vittoria del leader sciita Moqtada al-Sadr. Queste elezioni sono state le quarte dopo l’invasione americana del 2003 e le prime del post-ISIS, il gruppo islamico che il premier uscente al-Abadi ha dichiarato sconfitto nell’autunno scorso, dopo che in estate era stata liberata la città di Mosul. A differenza però delle passate consultazioni, queste ultime hanno visto una profonda spaccatura tra i vari partiti, non solo tra le componenti etniche del Paese (sciiti, sunniti e curdi), ma anche e soprattutto tra la componente sciita. Infatti, quest’ultima si è trovata divisa in cinque diverse coalizioni:

  • quella del premier uscente al-Abadi (Vittoria dell’Iraq) che ha fatto leva sulla “vittoria” contro ISIS (ricordiamo che al-Abadi era salito al potere sostituendo al-Maliki proprio sull’onda dell’avanzata dello Stato Islamico nell’estate del 2014);
  • quella di al-Maliki (Stato di Diritto) che, come la precedente, è legata al partito Dawa, storicamente vicino all’Iran;
  • quella guidata da Hadi al-Amiri (La conquista) che è strettamente collegata alle PMU, Popular Mobilization Units, ovvero le unità sciite di mobilitazione popolare che dal giugno 2014 hanno affiancato le forze di sicurezza irachene nella lotta contro ISIS;
  • quella di Amar al-Hakim che si rivolge a un elettorato più giovane;
  • quella di Muqtada al-Sadr (I Manifestanti) che unisce sia i vecchi membri del suo esercito, il Mahdi, che dal 2003 al 2007 combatté un’aspra guerriglia contro le forze americane nel paese, sia elementi sunniti, sia ancora ciò che resta del partito comunista iracheno.

Di queste, la coalizione di Muqtada al-Sadr è stata quella con il respiro più “nazionalista” e meno settario, come dimostrano anche le parole d’ordine della sua campagna, meno proiettate alla spaccatura del Paese, quanto a una sua ricomposizione e rivolte ad affrontare il problema della corruzione che affligge da anni l’Iraq. Ricordiamo, infatti, che anche i dati più recenti di Transparecy.org, un’ONG con sede a Berlino che ha come obiettivo quello di mappare e combattere la corruzione nel mondo, pongono Baghdad e l’Iraq nei gradini più bassi della classifica: 169° posto, lo stesso del Venezuela e in una posizione similare a Corea del Nord, Libia e Siria.

Ancor prima che i dati ufficiali da poco diramati lo confermassero, la coalizione di Moqtada al-Sadr era risultata vincitrice, un po’ a sorpresa, delle elezioni. La Coalizione dei Manifestanti tuttavia non potrà governare, almeno non da sola. Al-Sadr non era infatti un candidato e non può ricoprire alcuna carica, e i 54 seggi guadagnati in Parlamento non permettono di avere una maggioranza sufficiente. Al secondo posto con 47 seggi si è posizionata la coalizione guidata da Hadi al-Amiri, fortemente appoggiata e supportata dall’Iran. Mentre al terzo posto, con 42 seggi, si è imposto il premier uscente.

Non sarà quindi facile riuscire a formare un governo stabile che possa governare un Paese già di per sé frammentato, diviso e con alti tassi di conflittualità al suo interno, come tra l’altro testimonia il recente attacco alla sede del partito comunista a Baghdad. In particolare le agende delle tre coalizioni appaino molto diverse e divergenti proprio nei presupposti di partenza. Mentre al-Sadr si è imposto per la sua lotta alla corruzione e per la sua opposizione all’influenza straniera in Iraq (sia essa proveniente da Teheran o da Washington), al-Amiri è un uomo di Teheran e al-Abadi ha assunto la sua carica grazie ai sostegni americani, pur essendo gradito anche all’Iran.

Di particolare interesse è la figura di al-Amiri non solo poiché combatté dalla parte degli iraniani, durante la guerra Iran-Iraq negli anni ’80 del XX secolo, ma anche perchè è il capo dell’organizzazione Badr, una milizia sciita addestrata dall’Iran e protagonista sia dell’insorgenza contro gli americani dal 2003 sia della lotta contro ISIS, e ha dichiarato pubblicamente di essere un caro amico di Qassem Suleimani, il comandante iraniano delle Forze Quds, che svolge un ruolo strumentale nel sostenere il Presidente siriano Bashar al-Assad e, più in generale, nel rafforzare la politica estera iraniana nella regione.

Di conseguenza, al momento, è difficile predire chi e come potrà formare il nuovo governo. Di certo, possiamo evidenziare alcuni aspetti centrali. Primo, la vittoria di al-Sadr è stata una sorpresa che ha scompaginato i piani di alcuni attori locali. Molti analisti si aspettavano una vittoria delle coalizioni più vicine all’Iran, visti anche gli investimenti fatti da questo Paese per radicarsi in Iraq, come la figura di al-Amiri, che è solo un esempio tra i tanti, ben dimostra. Al-Sadr invece ha risollevato quello che potremmo definire, forzando un po’ la mano, lo spirito nazionalistico iracheno cercando di tenere unite le varie componenti della società irachena. In questo quadro si spiegano anche le recenti proteste popolari scoppiate a Baghdad contro la visita del già ricordato generale Qasem Soleimani, i cui incontri avevano lo scopo di promuovere presso i politici dei vari schieramenti sopra ricordati una coalizione di governo sciita in cui l’Iran possa giocare un ruolo e mantenere una certa influenza sulla politica irachena.

Un secondo aspetto da tenere in mente per valutare la situazione irachena post-elezioni è quello relativo alla sicurezza. Se da un lato, come precedentemente ricordato, è vero che ISIS è stato dichiarato sconfitto e che non controlla più grandi centri urbani in Iraq, è altrettanto vero che resta un elemento di forte instabilità. Per esempio l’UNAMI, la missione di assistenza per l’Iraq delle Nazioni Unite, ha calcolato che nel mese di aprile siano morti 64 civili iracheni a seguito di attentati e varie operazioni militari; a marzo le vittime erano state 104. ISIS si dimostra quindi ancora forte e attivo, infatti, il 7 maggio si era assunto la responsabilità di un omicidio mirato di un candidato sunnita nel nord del Paese. Inoltre, sempre a maggio, l’aviazione irachena ha colpito alcune basi di ISIS situate in Siria poco oltre il confine con l’Iraq da dove il gruppo gestiva gli attacchi su territorio iracheno.

Da questa riflessione emergono quindi due conclusioni. Da un lato l’Iraq è un paese profondamente diviso sia politicamente, per via delle sue componenti sociali ma anche, e forse soprattutto, per via delle influenze esterne, sia per la questione della sicurezza. Dall’altro lato il conflitto contro ISIS, e quello geopolitico più generale che coinvolge l’intera regione, pongono l’Iraq in una posizione particolare. È indubbiamente un Paese più libero e indipendente rispetto alla Siria di Assad, ma allo stesso tempo è fortemente controllato dall’Iran che proprio su Baghdad ha fatto perno per facilitare la sua penetrazione logistica in Siria.

Il conflitto siriano, pur non essendo terminato, è stato vinto dalla coalizione che ha supportato in modo diretto il regime di Assad, ovvero dalla Russia e dall’Iran. Sono questi due paesi che decideranno il futuro della Siria e dello stesso Assad (“sacrificabile” per Mosca, a patto di mantenere le basi in Siria; non così per Teheran). L’Iran ne ha bisogno per assicurarsi un corridoio fino alle basi di Hezbollah in Libano sul Mediterraneo. Per questo motivo l’Iran vorrebbe creare una sorta di economia e stato parallelo, come fece con successo in Libano. La Russia, invece, è più concentrata sul contenere l’egemonia americana e al contempo a far crescere la sua propria influenza. In questo quadro vanno lette le operazioni militari in Siria dove Mosca ha stabilito basi fisse, i contatti con le forze di sicurezza irachene, l’appoggio al generale Haftar in Libia (su cui si erano diffuse notizie di una presunta malattia, ma che resta saldamente al comando delle sue unità ora impiegate in questi giorni nella conquista di Derna), il supporto militare all’Egitto. Allo stesso tempo però la Russia mantiene una collaborazione con gli Stati Uniti come testimonia l’attacco missilistico americano di aprile in parte concordato con la Russia. Gli obiettivi colpiti sono stati pochi ma l’operazione è stata funzionale al lanciare il messaggio che non sono disposti ad abbandonare la politica di un rigido controllo su armamenti proibiti, come i gas. In questi giorni si è anche letto di un ritiro progressivo del coinvolgimento americano in Siria e di un richiamo russo a ritirare tutte le truppe straniere presenti nel Paese.

Gli Stati Uniti si trovano in una posizione molto complessa perché nel contrapporsi all’Iran oltre a Israele non hanno alleati locali: i curdi non possono essere una risposta, anche per via del fronte aperto con la Turchia, e le altre fazioni sono state lentamente spazzate via dai lealisti. Allo stesso tempo con le forze russe ormai saldamente in controllo di ampie porzioni di spazio aereo siriano non possono operare liberamente. E in Iraq, qualunque governo venga scelto (sia nel caso non si riesca a trovare un accordo per il governo sia nel caso dovesse prevalere la linea di al-Sadr in contrapposizione a quella iraniana), è verisimile che l’influenza americana sarà ridotta, soprattutto ora che la minaccia di ISIS è tornata sullo sfondo.

In un Medio Oriente già attraversato da forti tensioni le elezioni in Iraq potrebbero quindi aggiungere un ulteriore elemento di instabilità oppure rappresentare un punto di partenza per ricostruire su nuove basi politiche, sociali e identitarie (il richiamo di al-Sadr ad accantonare le diversità e lavorare per un Iraq meno corrotto e libero da influenza straniera) un Paese martoriato dalla guerra civile fin dal 2004.