Il 9 luglio il premier iracheno Haider al-Abadi si è recato a Mosul per congratularsi con i militari che, dopo nove mesi di feroci combattimenti, hanno riconquistato la città occupata dai miliziani di ISIS. La sconfitta dello Stato Islamico tout-court è però un’altra cosa.

ISIS conquistò la città di Mosul nel giugno del 2014 all’apice di un’offensiva militare che gli aveva permesso di espandersi in ampie zone della Siria e nel nord dell’Iraq, a esclusione della regione del Kurdistan. Poco dopo, dalla moschea della città, ora gravemente danneggiata dalla guerra, al-Baghdadi annunciava la rinascita del Califfato. Nel corso delle settimane successive ISIS riuscì ad avanzare verso la capitale Baghdad, ma senza mai raggiungerla, grazie anche all’intervento delle milizie sciite appoggiate dall’Iran. Al tempo stesso iniziava l’operazione Inherent Resolve che, a guida statunitense, vedeva impegnati (seppur in modo molto limitato) anche altri Paesi come Francia, Gran Bretagna, Italia, Germania. L’avanzata verso sud venne quindi fermata, ma non quella verso ovest che nella primavera del 2015 portò ISIS a conquistare quasi interamente la provincia di al-Anbar.

La presa di Mosul e l’istituzione del Califfato rappresentarono però un vero e proprio shock per il mondo occidentale, che sino ad allora aveva creduto alle dichiarazioni degli Stati Uniti, secondo cui il Paese nel 2011 risultata pacificato e democratico. Dichiarazioni accompagnate alla decisione del Presidente Obama di ritirare tutte le truppe americane sul territorio iracheno. I fatti seguenti hanno dimostrato quanto la situazione fosse molto più complessa e molto meno stabile di quanto all’epoca si volesse ammettere.

ISIS, infatti, aveva fatto perno per la sua espansione su due elementi della politica irachena e in parte dell’intero Medio Oriente, che sono stati ignorati o sottovalutati in Europa e in America.

Primo, il conflitto strisciante tra i gruppi sunniti minoritari, ma storicamente influenti nella politica del Paese, e il fatto che la repressione della maggioranza sciita abbia reso più marginale e difficile la loro posizione. Malgrado una certa vulgata mediatica, questi fattori non bastano a spiegare tutti i conflitti dell’area, ma hanno permesso a ISIS di far leva sulla popolazione e guadagnarsi consenso e appoggio.

Il secondo elemento della politica irachena è stato la debolezza strutturale del Paese che dopo anni di embargo (iniziato nel 1990 a seguito dell’invasione del Kuwait e terminato solo con la caduta di Saddam nel 2003) e di guerra (Operazione Iraqi Freedom iniziata nel 2003) non solo aveva seri problemi economici e infrastrutturali, ma era anche fragile dal punto di vista delle istituzioni e della stabilità interna. Lo dimostra il caso curdo: il Kurdistan è infatti ormai da un paio di decenni una regione autonoma sempre più staccata dal controllo di Baghdad, tanto che a settembre è intenzionata a indire un referendum per l’indipendenza.

ISIS è dunque il risultato della combinazione di questi diversi elementi che paiono ben lontani dall’essere risolti e su cui la “liberazione” della città di Mosul non ha alcuna influenza. Anzi, la durezza dei combattimenti intorno all’area urbana e al suo interno potrebbero aver ancor di più esacerbato le tensioni tra la popolazione locale sunnita e il governo centrale di Baghdad a guida sciita. In particolare  si fa qui riferimento all’impiego delle milizie sciite appoggiate, in modo nemmeno troppo nascosto, dall’Iran.

Un ulteriore elemento va comunque tenuto in considerazione per valutare in modo completo il peso della conquista di Mosul, ed è la storia dello stesso ISIS. Dopo l’invasione americana del 2003 in Iraq si sviluppò un’insorgenza estremamente complessa e variegata, e tra le sigle dei gruppi miliziani sunniti andò piano piano ad affermarsi Al-Qaeda in Iraq guidata da al-Zarqawi. Questo gruppo non era il più numeroso e nemmeno il più rappresentativo, ma era sicuramente quello che, attraverso una compagna di attacchi molto sanguinosi (usando principalmente attentatori suicidi) e diffondendo video estremamente cruenti delle sue esecuzioni, riuscì ad avere un maggiore impatto sia sui media sia sulla sicurezza locale.

Dopo aver raggiunto l’apice tra il 2005 e il 2006, ISIS venne gradualmente contenuto e ridimensionato dalle operazioni militari congiunte di Americani e Iracheni. Tali operazioni riuscirono a distruggerlo quasi completamente, tanto che tra 2009 e 2011, le sue attività si limitavano a poche operazioni molto limitate. ISIS, però, non era stato totalmente sradicato e, come ha dimostrato lo studioso americano Whiteside, in quegli anni è vero che le operazioni del gruppo furono molto limitate in termini di numero e di vittime, ma al tempo stesso furono molto mirate. Ovvero si trattava di omicidi mirati, compiuti con tattiche diverse (dall’autobomba, ai rapimenti, all’esecuzione), indirizzati a personaggi in vista e politicamente rilevanti di alcune regioni dell’Iraq e in particolare della provincia di al-Anbar (a ovest del Paese). È questa infatti un’area ampia con vasti deserti al confine con la Siria dove al-Qaeda era riuscita a radicarsi profondamente durante l’insorgenza e dove aveva forti legami con la popolazione locale. La zona di Mosul, sempre secondo i dati raccolti da Whiteside, vide all’epoca pochi attacchi poiché lì il gruppo, malgrado le difficoltà legate alle operazioni delle forze di sicurezza, manteneva una salda base d’appoggio. La stessa base che, rinforzandosi poi negli anni seguenti, ha permesso la rapida conquista della città nel 2014.

Questa breve ricostruzione storica serve dunque per mettere in luce il problema principale che la caduta di Mosul pone. Infatti, essa non significa affatto la sconfitta di ISIS in quanto tale, bensì, nella migliore delle ipotesi, la sconfitta locale di una frangia importante della milizia islamica.

La riconquista di Mosul potrebbe determinare per ISIS la rinuncia a darsi una struttura politica sul territorio, quella da cui derivava il controllo della popolazione e delle risorse locali, e all’organizzazione di mezzi e strumenti militari, obiettivamente facilmente identificabili come bersagli dall’esercito americano. A fronte di questa rinuncia, però, il gruppo guadagnerebbe:

  • flessibilità, perché non legandosi più a specifiche basi territoriali come Mosul tornerebbe a operare in modo più libero e indipendente;
  • invisibilità, perché non avendo quelle basi sarebbe molto più difficile da individuare e colpire per le forze di sicurezza;
  • risorse, nel senso che se è vero che non potrebbe più contare su entrare derivanti dal controllo del territorio, ma dall’altro lato le risorse guadagnate per il controllo del territorio potrebbero essere concentrate sull’organizzazione di attacchi di tipo terroristico.

Proprio quest’ultimo punto conduce a un’ulteriore riflessione. La perdita del territorio conquistato è stato per ISIS un duro colpo a livello mediatico e ideologico, ma al tempo stesso può aver liberato forze (finanziare, umane e strategiche) da dedicare per condurre attacchi altrove, sia nel Medio Oriente sia in Europa.

Bisogna poi aggiungere che se un anno fa circa ISIS controllava Mosul, il nord dell’Iraq e la provincia di al-Anbar, oltre che Raqqa e vaste aree della Siria e Sirte in Libia, ora la situazione è molto diversa. In Libia lo Stato Islamico ha perso nel dicembre scorso il controllo di Sirte, mentre nel quadro della guerra civile siriana ISIS sta perdendo posizioni e le forze curde appoggiate dagli Americani sono ormai alle porte di Raqqa e hanno già conquistato qualche quartiere della città.

Il gruppo resta attivo specie nel sud della Libia, in Egitto nella penisola del Sinai dove gli attacchi sono quasi quotidiani, in aree della Siria verso il confine con la Giordania, in Iraq dove conduce attacchi per esempio a Baghdad o nei campi profughi. La sua forza, però, non risiede tanto nel controllo del territorio, quanto nella sua ideologia e nelle sue idee politiche e religiose che riescono ad attrarre giovani musulmani in cerca di riscatto sociale e identità

Una sconfitta prettamente militare come quella di Mosul non deve quindi essere confusa con la sconfitta della minaccia posta da ISIS e da gruppi similari. Dunque quali potrebbero essere gli scenari che riguardano il Medio Oriente, il nord Africa e di conseguenza anche l’Europa?

La risposta è estremamente complessa e qui non si può che offrire solo qualche indicazione di massima. Per prima cosa ci si deve rendere conto che l’intera regione sta vivendo un cambiamento geopolitico profondo e irreversibile, ovvero la precedente strutturazione in stati nazionali nata durante la Prima guerra mondiale a seguito dei trattati di Sykes Picot è definitivamente entrata nei libri di storia lasciando una situazione del tutto fluida e di difficile soluzione. Quel che è certo è che la frantumazione della Libia, dell’Iraq con il riemergere del nazionalismo curdo e della Siria sono, oltre che sintomi di un problema di stabilità regionale più diffuso, prove tangibili di quella frantumazione. Pensare a un ritorno allo status quo precedente non può essere la soluzione. Ormai nell’area si è innescato un gioco geopolitico che tocca oltre agli attori regionali: l’Iran (coinvolto in Iraq, Siria e nel Golfo), la Russia che lo appoggia in alcuni teatri come quello siriano e che altrove ha conquistato posizioni come in Libia, l’Arabia Saudita in contrapposizione all’Iran e che impiega in modo più o meno consapevole il finanziamento a gruppi come ISIS come strumento di pressione e di lotta, gli Stati Uniti.

In questo quadro la sconfitta a Mosul di ISIS è sicuramente positiva, ma non può e non deve essere letta come un passo significativo verso la stabilizzazione dell’area sia perché, come visto sopra, ISIS e la sua ideologia posso riemergere in altre forme, altrove e continuare a incitare attacchi in Europa, sia perché ISIS è solo uno dei tanti tasselli da prendere in considerazione.