Il 24 novembre scorso, il sanguinoso attacco alla moschea sufi nel Sinai potrebbe essere il segnale di un cambio di strategia da parte di ISIS: dalla rivendicazione territoriale-statale all’insurrezione islamica
L’Egitto ha una lunga storia di instabilità interna legata a gruppi estremisti, dalla fondazione dei Fratelli Musulmani nel 1928, al Jihad islamico che nel 1981 uccise il presidente Sadat, fino ai gruppi più recenti che non solo hanno continuato a condurre attacchi importanti, ma hanno anche fatto emergere personaggi come al-Zawahiri, numero due di al-Qaeda fino al 2011 e poi successore di bin Laden. In questo quadro, il Sinai ha un ruolo cruciale, poiché è ormai da alcuni anni fuori dal controllo delle forze di sicurezza locali. Sempre in Sinai, ISIS aveva preso di mira la comunità cristiana, causando la fuga di molti fedeli dalla penisola. E in passato minacce erano state rivolte alla stessa comunità sufi della vicino alla città di al-Arish assaltata venerdì scorso. E’ quindi un’area di elevata instabilità. Malgrado questo, però, l’attacco rivendicato da ISIS contro fedeli musulmani raccolti nella preghiera del venerdì potrebbe rappresentare l’inizio di una nuova fase.
Benché nel Sinai, soprattutto nella zona intorno ad al-Arish, si contino attacchi quasi quotidiani, quasi sempre si tratta di attacchi contro le forze di sicurezza con vittime nell’ordine di una decina o poco più al massimo. L’attacco di venerdì scorso, invece, si connota per una scala molto diversa, ma soprattutto testimonia la volontà di cambiare obiettivo.
Innanzitutto, è la prima volta che i miliziani di ISIS prendono di mira una moschea, ossia una casa della stessa religione islamica che dichiarano di difendere. Il sufismo è una corrente mistica dell’Islam (presente sia in quello sunnita sia in quello sciita), considerata come pratica eretica da parte dei gruppi salafiti del jihad globale. Ma in passato l’intolleranza verso la corrente sufita si era per lo più tradotta in azioni puntuali, mirate a colpire singoli individui non considerati veri musulmani. Nel novembre 2016, ad esempio, ISIS aveva pubblicato online foto e video dell’esecuzione dello sceicco Suleiman Abu Haraz, 98 anni, capo religioso della comunità sufi, rapito poche settimane prima nei pressi sempre di al-Arish.
In secondo luogo, dalla dinamica dell’agguato si può evincere che ci sia stata la volontà di realizzare un’azione “esemplare” (gli assalitori erano mascherati, indossavano tenute militari e esibivano le bandiere nere dell’ISIS) e procurare il maggior numero di vittime possibile. Dopo aver attaccato la moschea, infatti, i miliziani hanno fatto irruzione nelle case vicine uccidendo i residenti e sparando sulle ambulanze accorse sul luogo della strage. Prendendo, però, di mira le moschee, i miliziani potrebbero aprire un fronte nuovo e molto insidioso per le forze di sicurezza egiziane. In Egitto, infatti, ci sono oltre 130.000 moschee in Egitto, a fronte delle “sole” 2.900 chiese. Ciò aumenta enormemente gli obiettivi sensibili che andrebbero protetti, e proprio per questo, vista l’ampiezza del teatro, rende impossibile per le forze di sicurezza garantire protezione a tutte.
Una terza questione riguarda le relazioni tra al-Qeada e ISIS. Come abbiamo ricordato, la presenza del jihadismo estremista in Egitto ha una lunga storia. Quella di ISIS è più recente, anche se si innesta su quel retroterra. Il gruppo da cui ha preso origine si chiama Ansar Beit al-Maqdis, nato sulle basi dell’ideologia di al-Qaeda nel 2011 a seguito dell’instabilità portata dalle cosiddette primavere arabe. Fino al 2013 circa, però, i suoi obiettivi erano stati principalmente economici e relativi alla lotta contro Israele. In seguito il gruppo giurò fedeltà ad al-Baghdadi, diventando il braccio armato di ISIS nella penisola. In questo quadro, colpisce la tempistica dell’attacco alla moschea sufi, arrivato meno di due settimane dopo che il gruppo legato ad al-Qaeda, Jund al-Islam, aveva rilasciato un comunicato in cui rivendicava la responsabilità di un attacco contro un gruppo di miliziani di ISIS nel Sinai, descrivendoli con termini simili a quelli utilizzati per riferirsi ai musulmani considerati eretici. Jund al-Islam è un gruppo radicato da più tempo nella zona rispetto a ISIS ed è composto principalmente da jihadisti beduini palestinesi ed egiziani. Una tale dichiarazione potrebbe allora indicare una pericolosa deriva della situazione nel Sinai aprendo la prospettiva di un conflitto tra al-Qaeda e ISIS, con sullo sfondo il conflitto contro l’esercito egiziano, che si troverebbe ad affrontare entrambi.
La lotta tra i due gruppi in particolare si va sviluppando su due piani diversi ma interconnessi. Da un punto di vista ideologico ISIS ha sempre fatto ampio ricorso alla retorica del Califfato, dichiarando con enfasi ogni nuova conquista e il controllo di determinate province, mentre al-Qaeda ha sempre ritenuto che tali dichiarazioni dovessero aspettare il momento propizio ed essere precedute da ampie campagne rivolte verso la popolazione locale. Da un punto di vista tattico, ISIS non ha mai esitato a colpire i civili, in particolare la comunità cristiana copta dell’Egitto, mentre i gruppi legati ad al-Qaeda hanno cercato di concentrare gli attacchi contro l’apparato di sicurezza egiziano e garantirsi l’appoggio della popolazione locale.
L’attacco contro la moschea sufi può essere letto come il segnale di un cambiamento interno all’ISIS. Già da mesi, diversi analisti hanno sottolineato come il gruppo stesse cambiando pelle, tattiche e obiettivi. Si potrebbe, infatti, sostenere che ISIS, alla luce delle sconfitte militari subite sul campo, sia passato dalla forma semi-statuale che aveva assunto tra Iraq e Siria a una più vicina a un’insurrezione islamica. A sostegno di questa ipotesi i dati del Jane’s Terrorism and Insurgency Center (JTIC) mostrano che, tra l’ottobre 2016 e il settembre 2017, ISIS si è resa responsabile di 5.349 attacchi (e circa 8.000 morti civili): +38,3% rispetto ai 12 mesi precedenti. Questo potrebbe significare che il gruppo abbia deciso di accantonare le strategie da guerra convenzionale impiegate in Iraq e Siria per condurre, invece, una campagna quasi globale di terrore e insurrezione.
Anche se gli edifici fisici che un tempo ospitavano l’architettura burocratica e semi-statuale del califfato sono ormai caduti, la rete di ISIS non è scomparsa e per sopravvivere deve continuare a compiere operazioni ad alto impatto mediatico per fomentare la mitologia del califfato che cade e si innalza nel corso dei secoli, ma che alla fine conduce i credenti alla vittoria contro gli infedeli, ovvero l’Occidente. L’Europa continua così a rimanere esposta su due fronti contemporanei: non solo il continente è vulnerabile alla minaccia jihadista lungo i suoi confini a est (Turchia) e a sud (Libia, ma è tutta l’instabilità del Nord Africa che dovrebbe preoccupare seriamente i paesi europei come dimostra l’attacco in Egitto), ma è anche obiettivo prediletto e facile da colpire per elementi radicalizzati già presenti in Europa o in ingresso con i flussi migratori (come testimoniano i recenti arresti in Germania) o, ancora, per i foreign fighters con passaporto europeo che tornano nei Paesi di origine dopo aver condotto operazioni militari in Medio Oriente - la Commissione europea ha calcolato che in totale questi ultimi si aggirino intorno ai 41.000, di cui 5.000 con passaporto europeo.
L’attacco del 24 novembre in Sinai mette quindi ancora più in luce da un lato la fragilità dell’Egitto, così come quella dell’intera regione che copre il Nord Africa e il Medio Oriente, e dall’altro la persistenza di ISIS o gruppi che si richiamano alla sua ideologia. La stabilità egiziana è però indispensabile per varie ragioni, in primis per via del fondamentale canale di Suez, ma anche perché rappresenta un attore importante per tentare di risolvere la crisi libica, dove il governo de Il Cairo ha il suo migliore alleato nel generale Haftar che controlla ampie porzioni della Libia.
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