Che strana campagna elettorale. E' cominciata all'improvviso, durerà poco, e si preannuncia tiepida e (quasi) nonviolenta. Di solito succede il contrario, la Seconda Repubblica ci ha abituati a campagne lunghe e lungamente preparate, e soprattutto molto barricadere. Per ora si fa fatica a comprenderne bene i connotati.
Se il parametro da utilizzare per misurare il tasso di innovazione di questa campagna sono le alleanze elettorali, infatti, si deve ancora aspettare: il Partito Democratico ha annunciato che andrà da solo, ma lo farà davvero, e ovunque? Anche al Senato, anche nelle regioni "rosse", in quella Toscana dove la sinistra estrema raccolse nel 2006 un fondamentale 16%? E il "Popolo della Libertà", cosa farà con l'Udc? E che dire dei tanti atolli dispersi – Dini, Mastella, Fatuzzo, Rotondi – che bussano in queste ore alle porte del Cavaliere? Tutte domande a cui i due poli dovranno dare risposte chiare e in fretta.
Ma la posta in palio forse è un'altra, e si gioca sul fronte della credibilità del cambiamento in atto. C'è stato un autunno che prometteva una duplice rivoluzione, che è volata sull'onda di parole d'ordine suggestive e audaci. Da una parte, la "vocazione maggioritaria" di Veltroni: la vocazione di un partito nuovo che scegliendo un nome americano e una struttura più snella e flessibile è parso voler fondare davvero una nuova cultura politica, distinta e differente da quelle da cui discendeva; dall'altra la "rivoluzione del predellino" di Berlusconi, e cioè la scelta di rompere con le scomode alleanze interne al centrodestra per chiamare a raccolta direttamente gli elettori, bypassando così leadership e apparati di partito. A quest'autunno scintillante e incerto è seguito un inverno un po' appannato, dove le due simmetriche rivoluzioni si sono stemperate nella tattica. A sinistra, il rischio è che per cambiare tutto si cambi poco: che si torni agli accordi di desistenza (come nel 1996), che la politica della nuova sinistra finisca per somigliare troppo a quella dell'esperienza prodiana; che il Partito Democratico, ad esempio, accetti come interlocutore privilegiato Antonio Di Pietro, e cioè l'alleanza con un certo giustizialismo demagogico che era proprio quello da cui il Partito Democratico, con la sua "bella politica", si voleva differenziare. A destra, si profila una soluzione che rischia di essere poco innovativa, se l'intenzione fosse quella di mettere insieme Forza Italia e Alleanza Nazionale come pura somma: cioè in modo che il 14 aprile si possa dire che il partito unico risultante ha più voti del suo competitore.
Può darsi invece che siamo davvero alle soglie di una svolta storica. In questo caso, la partita è tutt'altro che semplice. Le rivoluzioni elettorali si fanno quando gli elettori vengono convinti a cambiare il proprio voto, anziché a rifluire in contenitori più grandi, per imposizione o per necessità. Il cambiamento è credibile quando ha in sé una qualche parte di rischio: davanti alla possibilità concreta che il proprio progetto possa fallire, si scommette sulle persone, sugli elettori. In Italia il voto è sempre stato di affiliazione perpetua, quasi feudale: è rarissimo vedere cambiare di segno le masse elettorali, come avviene nelle democrazie dell'opinione, Gran Bretagna e Stati Uniti in testa. Questa sfida è soprattutto nelle mani di Walter Veltroni, per il semplice fatto che Berlusconi, dato largamente per favorito, non deve andare a caccia di nessun voto, semmai organizzare bene e meglio quelli che già ha. Veltroni invece ha due mesi di tempo per convincere una larga fascia di opinione pubblica che la sua autonomia dalla sinistra estrema è reale, che il suo è un vero partito del ventunesimo secolo; per scommettere insomma su questi elettori e sulla loro disponibilità a cambiare. Il tempo, come si vede, è molto poco. Staremo a vedere.