È rimasta abbastanza sepolta nel vortice della campagna elettorale la notizia del crack della società Sopaf, la holding degli importanti fratelli Magnoni, finanzieri con altissime entrature nel mondo bancario e politico, finiti agli arresti nell’ambito di un’inchiesta della procura di Milano condotta dal pm Gaetano Ruta.

1. Le accuse sono pesanti: associazione per delinquere, bancarotta fraudolenta, truffa, frode fiscale e appropriazione indebita. In sostanza i Magnoni sono accusati di aver utilizzato la propria holding Sopaf come un bancomat, depauperando di proposito la società a proprio vantaggio, e a danno invece, tra gli altri, delle casse previdenziali dei medici, dei ragionieri e dei giornalisti, che a una controllata della Sopaf avevano affidato in gestione complessivamente 630 milioni di euro.

È quasi pleonastico un invito alla prudenza: nessuna conclusione circa le responsabilità penali degli indagati può in alcun modo essere raggiunta, e occorrerà attendere i lunghi tempi della giustizia perché si possa fare effettivamente chiarezza.

Sin d’ora, però, la vicenda suggerisce alcune riflessioni su un mondo, quello delle 21 Casse di previdenza operanti nel nostro paese, che interessa quasi 3 milioni di professionisti e gestisce una masse di attivi molto consistente, pari a circa 55 miliardi di euro.

I Magnoni, infatti, e in particolare Giorgio Magnoni, hanno respinto ogni addebito, e nella fattispecie negato la volontà di depauperare la Sopaf, ma non hanno potuto negare che il depauperamento vi è stato, tant’è che la società è sottoposta a concordato preventivo. Semplicemente, il danno patrimoniale va attribuito, secondo la difesa, a scelte di investimento sbagliate, e non a un deliberato intento di sottrarre risorse.

2. E qui sta il punto: anche se i Magnoni uscissero assolti con formula piena dal procedimento a loro carico, resta il dato oggettivo della perdita patita dalle casse professionali coinvolte, e quindi indirettamente dai professionisti iscritti alle stesse: su tutte i ragionieri, che erano esposti nella misura di gran lunga maggiore, e poi medici e giornalisti.

La questione che si pone è dunque la seguente: potevano i ragionieri, i medici e i giornalisti difendersi da questa perdita? La risposta, purtroppo, è no, perché l’iscrizione alle casse professionali è obbligatoria, e i professionisti sono pertanto obbligati a versare una quota del proprio reddito alle stesse. Dopo di che, non resta loro che sperare che, a decenni di distanza, quei soldi non siano andati in fumo, e garantiscano una pensione decorosa.

Il meccanismo non è in realtà diverso da quello di qualunque altro lavoratore soggetto all’INPS: anzi, solitamente la contribuzione richiesta dalle casse professionali è inferiore a quella richiesta dal colosso statale, e anzi le casse professionali sembrano essere state gestite storicamente meglio dell’INPS, al punto che vi sono già stati diversi tentativi, finora respinti, da parte della previdenza statale, di inglobare al proprio interno le casse dei professionisti, evidentemente un boccone molto ghiotto i cui utili consentirebbero di compensare in parte le perdite di altri settori.

Il problema è che, per il singolo professionista, non c’è una garanzia che le cose debbano per forza andare sempre così, e la vicenda della Sopaf è lì a dimostrarlo. Tipicamente, il professionista può eleggere i propri rappresentanti nei consigli che gestiscono le scelte di investimento delle rispettive casse, e il governo Monti avviò inoltre un’analisi di sostenibilità a 50 anni dei conti delle stesse.

Da questa sorta di stress test le casse sono uscite con una generalizzata promozione, il che può indurre all’ottimismo i professionisti, o viceversa indurli a temere che i criteri non siano stati abbastanza stringenti.

Sta di fatto che l’obbligatorietà dell’iscrizione alle casse sconta un problema cui nessun meccanismo elettivo e nessun controllo amministrativo può rimediare: il disallineamento degli interessi tra rappresentante e rappresentato, o in altri termini il classico problema di principal e agent.

Non potendo di fatto scegliere la destinazione dei propri risparmi previdenziali, al professionista non resta che sperare in una buona gestione: ma i crack come quello della Sopaf saranno sempre dietro l’angolo. Lo saranno sia nella versione dell’accusa, ovvero quella della truffa deliberata, sia – ed è questo l’aspetto cruciale – nella versione della difesa, ovvero quella delle scelte di investimento sbagliate.

Di quelle scelte di investimento sbagliate il professionista danneggiato farà fatica a dolersi con qualcuno, e tipicamente, ove le proporzioni del buco risultassero elevate, la collettività nel suo complesso verrebbe chiamata a ripianare i conti.

È ciò che capita con qualunque monopolio legale: non essendovi facoltà di scelta per l’utente, non c’è interesse a selezionare il fornitore migliore, perché per definizione di fornitore ce n’è uno solo e non c’è spazio per una benefica competizione. Il monopolio può portare buoni risultati, o quanto meno migliori di altri monopoli come quello dell’INPS, ma la teoria economica insegna che una maggiore apertura del mercato, ovvero una maggiore libertà per i professionisti di costruire il proprio futuro pensionistico, avrebbe effetti benefici sul sistema nel suo complesso.

Se la liberalizzazione del mercato previdenziale può apparire nell’immediato troppo audace per la generalità dei contribuenti, il settore dei servizi professionali sembra essere un ottimo terreno di sperimentazione: i professionisti sono per definizione soggetti a un vaglio pubblicistico che ne attesta le competenze e le capacità, non si può quindi pensare che non siano in grado di pensare da sé alla propria pensione e scegliere da sé come costruirla.

Là dove “da sé” non significa naturalmente che ciascun professionista scelga materialmente dove investire i propri risparmi destinati alla pensione, ma che scelga liberamente a chi rivolgersi per una consulenza su questa importante decisione, e non sia obbligato a scelte di investimento decise in via monopolistica da un ente centrale su cui ha scarse se non inesistenti possibilità di incidere.

3. In una fase molto delicata come questa, di grande incertezza sui mercati finanziari e di rischio sistemico tuttora assai elevato, il monopolio delle casse professionali su una fetta molto consistente dei risparmi dei professionisti impedisce la diversificazione del rischio e delle scelte di investimento, concentrando i risparmi tutti negli asset decisi dai vertici.

Naturalmente gli organi decisionali delle casse potranno diversificare, ma la diversificazione sarebbe immensamente più elevata (e così il rischio sistemico molto inferiore), se i singoli professionisti potessero scegliere liberamente a chi affidare in toto i propri risparmi previdenziali.

Vicende come quella della Sopaf sono dunque un campanello d’allarme sulle possibili gravi conseguenze sistemiche in caso di scelte di investimento sbagliate da parte degli organi di vertice delle varie casse professionali. In presenza di un mercato e quindi di una liberalizzazione dei servizi professionali, solo alcuni ragionieri, medici e giornalisti avrebbero fatto arrivare i propri risparmi alla Sopaf, e quindi le perdite complessive sarebbero state più limitate.

Se questo è vero sul piano generale della policy e dei costi e benefici per la collettività dei professionisti e dei contribuenti in generale, tanto più vale se ci si pone sul piano dei singoli professionisti, e della loro libertà di compiere scelte di investimento secondo le proprie preferenze e convinzioni: una libertà oggi negata dall’obbligo di sottostare a scelte di investimento decise in maniera vincolante da soggetti terzi il cui successo professionale non è legato, se non in maniera molto debole, al successo delle scelte di investimento effettuate per gli iscritti.