Per l’Italia il teatro libico è fonte di grande attenzione sia per ciò che riguarda la politica estera, sia con riferimento all’economia e alla stabilità sociale rispetto ai flussi dei migranti. Ma sul teatro libico sono anche molti altri gli interessi in gioco.
Venerdì scorso in Libia si è ricordato l’anniversario della rivoluzione che nel 2011 rovesciò il governo di Gheddafi, dando inizio a un periodo di violenze e instabilità. Il teatro libico è per l’Italia, ma anche per l’Europa, la preoccupazione maggiore per ciò che riguarda la sua politica estera, la sua economia e la stabilità sociale in relazione al flusso di migranti che dalle coste libiche partono per raggiungere prima il nostro Paese e poi il resto del continente.
L’Italia in Libia
La centralità della Libia per la politica estera italiana è stata testimoniata in modo evidente il 10 gennaio scorso con la riapertura dell’ambasciata a Tripoli, la prima sede diplomatica occidentale ad essere riaperta in Libia dopo l’evacuazione del 2015. La decisione italiana è un chiaro tentativo di sostenere il Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Fayez al-Sarraj che, malgrado i riconoscimenti internazionali, non è riuscito a imporsi nella complessa realtà politica e militare libica e al momento pare alquanto indebolito. La presenza diplomatica italiana, inoltre, va letta come il tentativo di essere più presente in un’area di crisi in un momento in cui la situazione potrebbe mutare rapidamente per il concorrere di più fattori.
In primo luogo, la nuova amministrazione Trump ha sostenuto che la Libia non è un problema americano, malgrado sul terreno operino alcuni elementi delle Forze Speciali e nel cielo vi sia una costante presenza di droni o altri aerei per la raccolta di informazioni. L’amministrazione Trump ha ripetutamente sottolineato la necessità di combattere il terrorismo, ma non ha delineato alcun piano per stabilizzare la Libia.
In secondo luogo, nelle ultime settimane il coinvolgimento russo si è fatto più incisivo, il che ha cambiato non poco i già fragili equilibri sia interni alla Libia sia a livello regionale. Questa concomitanza di fattori ha probabilmente spinto il Governo italiano a compiere passi concreti, così come fatto anche dalla Turchia, che ha riaperto la sua ambasciata il 30 gennaio (ma il suo Consolato a Misurata non ha mai chiuso). Inoltre, il Governo italiano sembra volersi ergere a una sorta di mediatore tra l’interventismo russo e i Paesi europei e occidentali.
In terzo luogo, questo è un momento delicato perché Martin Kobler, l’attuale inviato speciale ONU per la Libia, ad aprile non verrà riconfermato, mentre il successore designato, il palestinese Salam Fayyad, è stato bocciato dagli Americani. Questo crea uno spazio di manovra e di opportunità che Serraj sembra intenzionato a sfruttare: oltre ad aver compiuto una visita diplomatica ad Ankara per discutere dei legami economici tra i due Paesi, che hanno promesso di riaprire quanto prima i collegamenti aerei, ha portato avanti dei tentativi di dialogo con Haftar, che però sembrano falliti.
Non va dimenticato però che nel paese la sicurezza è tutt’altro che garantita. Il 21 gennaio un’autobomba è esplosa nei pressi dell’ambasciata italiana. L’attentato non ha causato vittime tra il personale o danni alla struttura, ma il fatto sottolinea chiaramente le tensioni presenti nel Paese, così come lo scarso controllo del territorio che Sarraj esercita anche all’interno della capitale. D’altronde, il giorno stesso in cui le credenziali per l’apertura dell’ambasciata erano state consegnate, Khalifa Al-Ghawiel, premier del governo di salvezza nazionale (non riconosciuto dalla comunità internazionale e in linea di principio ormai sostituito da quello di Sarraj), ha invitato il Governo italiano a ritirare le proprie truppe dal Paese. Il riferimento è ai circa 200 effettivi (tra medici e personale addetto alla sicurezza) che operano a Misurata in un ospedale da campo istituito dall’Italia come elemento di appoggio all’operazione contro ISIS a Sirte, terminata a dicembre.
L’approccio dell’Italia è anche l’ultimo tentativo di trovare una soluzione a un problema che continua a vessare l’Europa: l’incessante flusso di migranti che lasciano la Libia attraversando il Mediterraneo. In questo quadro si inserisce l’incontro di Malta di inizio febbraio. In tale circostanza si è discusso dell’addestramento della guardia costiera libica per intercettare le imbarcazioni nelle acque territoriali libiche (dove le unità navali europee non possono intervenire) e di un maggior coordinamento delle operazioni anti-contrabbando.
La sicurezza in Libia
Sulla carta i risultati dell’incontro di Malta sembrerebbero molto positivi, ma vanno commisurati con quanto avviene concretamente sulle coste libiche. Prima di tutto il flusso migratorio è gestito da reti criminali molto ben radicate in Liba e in tutta la regione. Queste gestiscono non solo un traffico enorme di persone, ma anche e soprattutto di soldi. I gruppi estremisti come ISIS sono intrinsecamente legati a reti di contrabbando che hanno approfittato dell’instabilità del Paese per radicarsi profondamente nelle economie locali. Di conseguenza, questi gruppi hanno tutto l’interesse a difendere il traffico illegale dei migranti. Secondariamente l’idea di fermare le barche a ridosso della costa si scontra con il fatto che in Libia, in questo momento, non c’è nessun governo stabile a cui affidare tale compito e gli eventuali fondi per portarlo a compimento. Al contrario, si possono indicare ben tre diversi governi in conflitto fra loro e tutti con una forza e un supporto limitato. A questa situazione politica di per sé già frammentata, instabile e caotica si deve poi sommare quella della sicurezza, poiché in Libia esiste un complesso mosaico di milizie, oltre ovviamente a elementi legati allo Stato Islamico e ad altre milizie jihadiste.
L’Italia ha notevoli interessi economici in Libia. ENI è riuscita a continuare le sue operazioni anche nei momenti più caotici, ma nel corso dell’ultimo anno ha vissuto alcune battute d’arresto. La stabilizzazione della Libia è quindi un punto essenziale per l’Italia. Ma il tema è pressante anche per la sicurezza dell’intera regione del Nord Africa e, di conseguenza, per la sicurezza europea. Vale la pena ricordare, a questo proposito, che gli attentatori degli ultimi attacchi di stampo islamista in Europa hanno origini nordafricane.
Nel cercare di riaffermare la sua influenza in Libia oggi, però, l’Italia è penalizzata dalla debolezza del Governo di unità nazionale di Sarraj che appoggia. Malgrado il riconoscimento internazionale e l’appoggio delle milizie di Misurata (che però si sono logorate nei mesi di lotta contro ISIS a Sirte) il Governo locale è politicamente e militarmente debole. Inoltre, i recenti tentativi di colpo di stato da parte di Gheweil dimostrano che esso controlla solo alcune parti della capitale e che la sua autorità è da più parti contestata.
Hafter e le alleanze internazionali
Al momento l’avversario più credibile, sia a livello politico sia a livello militare, è il generale Khalifa Belqasim Haftar, che comanda le Forze armate libiche dal 2014. Haftar combatte gli estremisti nella parte orientale del paese e controlla i campi petroliferi della Cirenaica. In un’intervista al Corriere della Sera ha sottolineato almeno due aspetti particolarmente rilevanti.
Primo, in Libia è in corso un conflitto per cui il primo passo è sconfiggere gli estremisti e riportare almeno una parvenza di ordine, da cui ripartire con un progetto politico. Ovviamente la visione della sicurezza di Haftar e quella di Sarraj sono diverse, e alcuni considerano il generale stesso uno degli elementi di instabilità del Paese. È però indubbio che senza la sicurezza sia impossibile poter portare avanti un progetto politico serio, duraturo e stabile. Questo è un elemento centrale che in Libia, dal 2011 a oggi, è sempre stato disatteso: nessun governo è infatti mai riuscito a esercitare un effettivo ed efficace controllo del territorio e a disarmare le varie milizie.
Il secondo punto che merita attenzione dell’intervista di Haftar riguarda i suoi giudizi sull’Italia. Pur trovandosi dalla parte opposta rispetto agli alleati italiani, Haftar afferma che “gli Italiani da noi sono sempre benvenuti” aprendo a una qualche possibilità di dialogo politico, anche se subito dopo sottolinea come l’Italia, o almeno alcune sue frange, siano al momento potenziali nemici. Tale visione spiega anche le difficoltà e i rischi che il nostro Paese deve affrontare in Libia.
Le alleanze internazionali che appoggiano Haftar sono diverse rispetto a quelle italiane. Haftar, ad esempio, mira a ottenere l’appoggio degli uomini forti regionali, tra cui il Presidente egiziano Abd al-Fattah al-Sisi. L’Egitto è un attore cruciale per la stabilità libica. Al-Sisi vorrebbe riconoscere la posizione di Haftar e cercare di emarginare gli islamisti che negli ultimi anni si sono profondamente radicati anche in Egitto, come i continui attacchi in Sinai e gli attentati al Cairo - anche contro l’Ambasciata italiana - dimostrano. Al-Sisi potrebbe forse trovare un appoggio nell’amministrazione Trump per svolgere un ruolo più importante, ma è ancora presto per fare previsioni di questo tipo. Haftar è poi supportato dagli Emirati Arabi Uniti che ormai da tempo utilizzano la base aerea di Al Khadim per le operazioni con i droni e le incursioni degli aerei legati alla compagnia di Eric Prince (la vecchia Blackwater già ampiamente utilizzata in Iraq).
Il vero alleato di Haftar, colui che gli ha permesso di presentarsi alla comunità internazionale come soluzione al problema libico, è il Presidente russo Vladimir Putin. Come già sottolineato, la Russia sta giocando un ruolo di primo piano nella regione del Mediterraneo. Non si hanno notizie certe di cosa si sia discusso negli ultimi incontri del 2016 tra Haftar e Putin, ma si può ipotizzare che la Russia abbia promesso un qualche aiuto militare sia nella forma di rifornimenti sia in quella di personale con compiti addestrativi.
Tale interventismo russo va inserito in un quadro più ampio che vede una Russia ampiamente presente nel Mediterraneo (in Siria, Egitto e Libia) come non accadeva dai tempi della Guerra fredda. La Russia ha interpretato l’intervento in Siria come una strategia di successo, per cui proverà ad applicare quel modello alla Libia dove gli obiettivi potrebbero essere molteplici: dal riattivare gli scambi economici a vari livelli soprattutto per quanto riguarda alcuni contratti legati alle infrastrutture libiche che, firmati ai tempi di Gheddafi, non sono stati ancora implementati; all’ottenere altri sbocchi nel Mediterraneo dopo Tartus in Siria, magari scambiando l’appoggio diplomatico/militare ad Haftar con l’accesso ai porti libici; al creare una sorta di “pedina di scambio” a livello politico con l’EU per cui il coinvolgimento russo potrebbe essere ridotto in cambio di qualche “favore” riguardo magari le sanzioni o l’Ucraina.
Nel caso in cui la Russia riuscisse a realizzare il sogno geopolitico, coltivato per secoli, dell’accesso ai mari caldi, sarebbe però difficile ipotizzare un suo facile ritiro.
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