Si dice che la concorrenza giova al mercato. Ma recenti studi suggeriscono come la concorrenza giovi anche alla politica. Lì dove non c’è contendibilità politica, come nella città di Siena, il mancato ricambio ai vertici dell’amministrazione pubblica crea collusioni politico-finanziarie che finiscono per creare profonde diseconomie in entrambi i campi.

1. È dai tempi di Adam Smith che gli economisti insistono sui benefici della concorrenza sul mercato dei beni: spinge i prezzi verso i costi; incoraggia l’innovazione di processo e di prodotto; massimizza il benessere sociale. Solo recentemente si è cominciato ad analizzare in maniera approfondita l’effetto della concorrenza in campo politico. Uno dei maggiori contributi in questo campo è quello di Tim Besley, Torsten Persson e Daniel Sturm (“Political Competition, Policy and Growth: Theory and Evidence from the United States”, in Review of Economic Studies, 77, ottobre 2010, pp. 1329-1352) in cui si sostiene che negli USA la competizione in politica è da 90 anni uno dei principali fattori di sviluppo a livello statale. In particolare si argomenta che negli ultimi 40 anni lo sviluppo degli stati del sud sarebbe riconducibile a un aumento della competizione politica nelle assemblee statali e nei governatorati.

La spiegazione potrebbe essere la seguente: fino al 1965, anno di approvazione del Voting Rights Act, i neri erano di fatto privati del diritto di voto (e questo in seguito alle leggi statali che limitavano il suffragio a chi superasse un test di inglese e fosse soggetto a tassazione capitaria); ma non appena la questione fu superata dalle nuove leggi federali, il voto non si divise più sulla barriera ideologica che separava i repubblicani dai democratici su basi razziali (con gli uni favorevoli all’estensione del voto ai neri e gli altri pregiudizialmente ostili). Si cominciò invece a valutare i Governatori sulla base della loro performance e questo aumentò la loro accountability e quindi il loro sforzo di produrre buoni risultati al fine di essere confermati nel ruolo.

2. Fatte le opportune (ed evidenti) differenze, la situazione di Siena può essere in parte interpretata in questa ottica. Qui per situazione senese non si intendono solo le questioni relative al Monte dei Paschi di Siena, ma a una crisi sistemica della città, partita nel 2008 con l’esplosione del buco finanziario dell’Università, a cui fece seguito la caduta nel 2012 della giunta comunale in carica da un anno, sempre per problemi legati alle nomine nella Fondazione MPS e nella banca.

Comune e Provincia nominano 13 consiglieri su 16, e l’affiliazione politica è evidente dato che i partiti del centrosinistra dominano le assemblee locali. Si considerino poi altri aspetti propri della politica senese: sindaci che sono dipendenti della Banca (come Maurizio Cenni), sindaci che ambivano a presiedere la Fondazione (una lettera del ministro Vincenzo Visco bloccò la nomina perché non era passato un congruo periodo di tempo tra le due cariche) e che poi venivano messi a capo di una controllata della Banca (nello specifico Pierluigi Piccini a capo di MPS France).

In una situazione politica in cui il governo di Comune e Provincia fossero effettivamente contendibili, probabilmente certi comportamenti non verrebbero messi in pratica e, dove lo fossero, gli elettori potrebbero efficacemente punire chi si comporta in maniera inadeguata. Il cambio di maggioranza negli enti locali porterebbe a un certo ricambio in Fondazione e nella Banca, in modo da fare pulizia degli errori (ed eventualmente dei reati) compiuti da amministratori e manager precedenti. D’altra parte il problema della competizione politica è trasversale alle forze politiche ed ai territori: gli scandali che hanno accompagnato gli ultimi anni della giunta Formigoni in Lombardia sono frutto anche di un potere quasi ventennale esercitato da una coalizione, senza che l’altra fosse efficacemente in grado di competere per il governo della regione.

3. In questi giorni si è sostenuto che non è il Comune (e quindi la politica locale) a controllare la Banca, ma quest’ultima a controllare la politica. In realtà i due soggetti si sostengono a vicenda: la politica nomina gli organi amministrativi della Fondazione e riceve dalla stessa le risorse necessarie all’ottenimento del consenso (finanziamento di lavori pubblici, contributi ad associazioni, alla stessa Università, ecc.) e pertanto indirettamente la possibilità di continuare a nominare gli stessi vertici della Fondazione (e a cascata della banca).

La competizione politica non può essere imposta per decreto. Servono istituzioni che facilitino il ricambio (in questo senso in generale i sistemi di elezione diretta sono efficaci), informazioni facilmente disponibili da parte delle amministrazioni per permettere ai cittadini di valutare il loro operato, e cittadini attenti e interessati al buon funzionamento della cosa pubblica. Quello che invece si può imporre (lo faceva la Legge Amato-Ciampi, che nel caso del Monte dei Paschi non era stata rispettata) è la perdita del controllo della banca da parte della Fondazione in modo da avere un azionista interessato al lungo periodo che però riduca il peso diretto della politica nella gestione, come avvenuto per la quasi totalità delle fondazioni bancarie. Non basta per altro la legge, occorre anche la volontà di farla rispettare, il che nel caso di Fondazione MPS sarebbe toccato ai ministri delle finanze succedutisi nel tempo e a cui toccava la funzione di sorveglianza sulle Fondazioni bancari. Evidentemente, nel caso specifico, non esercitata.