Il tradizionale partito di massa, “la più grande innovazione politico-organizzativa della politica del Novecento”, sopravvive nella mente e nel cuore di alcuni come modello ideale, ma è oggi morto e sepolto, poiché siamo entrati in una fase storica che non ha nulla a che vedere con quella che ne aveva consentito la nascita, lo sviluppo e l’affermazione. Quel partito di massa era infatti “figlio della società industriale”.
1. Piero Ignazi, (editorialista di Espresso e La Repubblica, già direttore de Il Mulino) dedica alla metamorfosi dei partiti politici europei un saggio agile e ben documentato, spietato nell’analisi a partire dal titolo: Forza senza legittimità: Il vicolo cieco dei partiti (Laterza).
La fase in cui ci troviamo inizia negli anni settanta del secolo scorso, quando i partiti di massa tradizionali abbandonarono le ideologie identitarie per farsi partiti interclassisti e "pigliatutto" (catch-all parties, per usare il termine coniato da Otto Krichheimer). Il mutamento di paradigma si è fatto più radicale negli ultimi anni. I partiti, sempre più ricchi e potenti, sono passati da "pigliatutto" a "Stato-centrici", ovvero si dedicano sempre di più all'occupazione degli apparati dello Stato e sempre di meno alla rappresentanza dei legittimi interessi di chi li vota.
Tre sono gli aspetti di questa nuova trasformazione, che si manifesta in tutti i partiti europei.
La presenza sul territorio. Tradizionalmente i partiti contavano su iscritti e sezioni, determinanti nella costruzione del “mito razionale democratico” su cui fondavano la propria legittimità in quanto rappresentanti della sovranità popolare. Con il tempo il legame con il territorio è venuto meno. Le prime sedi di Forza Italia somigliano assai più ai Milan Club (il modulo di adesione nel ’94 fu diffuso dal settimanale berlusconiano “TV Sorrisi e Canzoni”) mentre la creazione dei “circoli”, da Alleanza nazionale a Rifondazione comunista al Pd, si è tradotta in un’evanescente operazione di restyling piuttosto che un modo con cui avvicinarsi agli elettori. Un tempo le sezioni erano luoghi di aggregazione sociale e di formazione culturale, oggi servono a soddisfare “ben altri appetiti”, osserva Ignazi. Richiesti di fornire i dati sul tesseramento, negli ultimi anni i partiti italiani hanno letteralmente “dato i numeri”, con picchi positivi e negativi assolutamente inspiegabili, se non con l’imminenza di scadenze congressuali o elettorali.
La struttura centrale. Da Kohl a Chirac, ai laburisti inglesi, tutti i partiti aumentano, fino a tre volte, i funzionari di partito nelle capitali europee, a discapito del personale delle sedi locali che diminuisce ovunque. Si tratta di un fenomeno generalizzato, che ha come unica eccezione proprio l’Italia: dopo Tangentopoli, i partiti nostrani si sottopongono a una drastica cura dimagrante. Diventano “minimalisti”, si teorizza il “partito leggero”. Nel ’90 il PCI contava 451 dipendenti centrali e circa 2.000 a livello periferico, nel ’96 il Pds ne ha 91 al centro e appena 4-500 nel resto d’Italia. Di recente, sempre più spesso, le forze politiche ricorrono a esperti di comunicazione e consulenti a progetto: la flessibilità fa capolino anche in questo settore.
Il ruolo preponderante degli eletti. Il processo di occupazione degli organi di partito da parte dei parlamentari è ormai completo: si va da un massimo dell’80% per la Norvegia a un minimo del 25% per Francia e Finlandia, passando dal 50% circa di Germania e Danimarca. In Italia siamo intorno a una media del 75%, con percentuali minori per An e Lega. Gli eletti hanno il privilegio non secondario di fungere da tramite per il finanziamento del partito e soprattutto di poter contare su uno staff di collaboratori sempre più numeroso e privilegiato, tale da eguagliare e superare i dipendenti del partito.
Su tutto questo, poi, domina la questione dei contributi di Stato. Ovunque oggi i partiti gestiscono un giro d’affari superiore di varie volte a quello a loro disposizione negli anni Sessanta. In Gran Bretagna l’incremento è stato del 247%, mentre in Germania al tetto massimo di 133 milioni di euro vanno aggiunti altri 400 milioni che giungono attraverso le fondazioni collegate. In Francia i partiti ricevono dallo Stato circa 70 milioni di euro, in Spagna nel 2011 hanno incassato 90 milioni, con un incremento del 30% rispetto al 2002. In Italia il finanziamento ai partiti – pudicamente ribattezzato “rimborso elettorale” dopo l’abrogazione imposta dal referendum radicale del ’93 – è più che raddoppiato fino a 250 milioni nel 2008, per crescere ancora negli anni successivi. Questi finanziamenti, sottolinea Ignazi, sono sempre controllati dal centro. Ne consegue che ovunque, in Europa, i partiti sono molto più ricchi e dunque più forti di un tempo. Ma un partito più forte al centro e nelle istituzioni e sempre più dipendente dalle risorse pubbliche, che futuro ha davanti a sé quando non affonda più le sue radici nella società?
2. La “videopolitica” denunciata da Sartori certo ha giocato un ruolo primario in questo processo, ma “persino il più carismatico dei leader necessita di un partito”. Gli one-man party, da De Gaulle fino ai giorni nostri, sono pur sempre imprese collettive, come indica il caso limite di Forza Italia: “anche la più ectoplasmica e fluida delle formazioni politiche, nel momento in cui partecipa alla competizione elettorale, è soggetta a una serie di vincoli, legali e organizzativi”.
Oggi i partiti sono regolati per legge in 14 paesi europei (più Israele, dove chi froda le votazioni interne è punito fino a un anno di carcere). Dunque “nel momento in cui cresce la disistima nei confronti dei partiti, l’essere costituzionalizzati o regolamentati per legge offre una sorta di garanzia di sopravvivenza e attesta il loro ruolo essenziale nel processo democratico”. Anche se ormai in Italia solo il Pd ardisce usare ancora questo termine, “il partito non è un fastidioso accidente, non è sul punto di volatilizzarsi, né in Italia né altrove. Al contrario, i partiti sono sempre più forti. E finora hanno resistito a tutte le sfide”.
L’autore si mostra assai scettico sulle possibili alternative offerte dalla democrazia diretta, scorciatoia prediletta dal populismo. L’istituto del referendum popolare non è privo di controindicazioni, così come quello del cosiddetto recall (la possibilità per un certo numero di elettori di sfiduciare il singolo parlamentare in carica), che porrebbe i parlamentari in balìa di umori mutevoli. Meno che mai sono auspicabili le giurie popolari, rispolverate in Francia da Ségolène Royal alle presidenziali del 2007 e respinte da un’opinione pubblica memore del Terrore giacobino e poco incline a Tribunali del Popolo di stampo maoista.
3. Di fronte alla crescita dei finanziamenti statali, al dilagare degli scandali e alla colonizzazione della società civile, come correre ai ripari? I partiti, ormai generalmente autoreferenziali, “non sono tutti ugualmente insensibili”, sostiene Ignazi nelle conclusioni. In Gran Bretagna, in Germania, un po’ ovunque i partiti maggiori hanno coinvolto la base degli iscritti nella elaborazione dei programmi, nella scelta delle candidature, nell’elezione del leader. Persino i partiti europei più accentrati e verticisti, come quelli francesi, si sono adeguati a procedure democratiche interne. In Italia, come è noto, solo il Pd ha progressivamente allargato i confini del voto, fino a consentirlo, nelle primarie di coalizione, anche ai cittadini non iscritti ad alcun partito. Tutte le altre forze politiche italiane escludono i propri iscritti dal processo decisionale: “Al di là del caso anomalo del Pd, i partiti italiani si dimostrano impermeabili al processo di decentramento, di inclusione e di apertura evidenziato dagli altri partiti europei”.
Per non venire investiti dall’ondata di disistima che rischia di travolgerli, i partiti hanno dunque bisogno di aprirsi e democratizzarsi. La loro attuale crisi è grave, ma essi sono pur sempre “l’unico mezzo attraverso il quale i rappresentanti vengono legittimati ad agire”. Senza questa legittimazione, la delega rischia di venire affidata a un capo, un leader, un duce. Questa tentazione, nonostante gli esisti disastrosi del Novecento, continua a esercitare un certo fascino. “La versione attuale del bonapartismo si presenta oggi nelle vesti del populismo”. Piero Ignazi, politologo autorevole e misurato, evita garbatamente di fare i nomi.
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