Nella prospettiva di un nuovo impegno bellico dell’Italia in Iraq viene da domandarsi quale sia l’attuale ruolo militare del nostro paese nel Mediterraneo e quale il progetto politico dietro alle singole decisioni d'intervento.

Il 7 ottobre 2015, durante la conferenza stampa seguita all’incontro con il Segretario alla Difesa americano Ashton Carter, il Ministro della Difesa italiano, Roberta Pinotti, ha commentato le indiscrezioni su un presunto imminente coinvolgimento in operazioni offensive dei caccia militari italiani in Iraq dichiarando: “stiamo valutando eventuali nuove necessità che possano venire dalla Coalizione o dal Governo iracheno, ma nessuna decisione sarà presa senza il coinvolgimento del Parlamento”. Ma, a fronte di questo futuro, sia pur ipotetico, impegno bellico dell’Italia in Iraq, qual è la situazione complessiva della politica estera del nostro Paese sul fronte sudorientale del Mediterraneo ?

Certamente, due aspetti vanno presi in considerazione.

Primo, fin dall’estate scorsa l’Italia è già coinvolta nel teatro iracheno insieme agli Stati Uniti e a una ventina di altri alleati, occidentali e non, tra cui Regno Unito, Francia, Australia, Canada (che proprio nei giorni scorsi ha dichiarato la volontà di ritirarsi), Turchia, Danimarca Olanda, Germania, Giordania e Arabia Saudita. Tale eterogenea coalizione che si è venuta a formare nel corso del tempo opera in collaborazione con i Curdi e il Governo di Baghdad per bloccare i miliziani di ISIS che hanno conquistato ampie zone del Paese (tra cui le città di Mosul e Ramadi). In particolare, l’Italia ha garantito l’impiego di quattro Tornado per compiti da ricognizione, due droni per sorveglianza e intelligence e un aereo cisterna per il rifornimento in volo, oltre al personale militare necessario per la manutenzione e la piena operatività dei velivoli. A questo dispiegamento vanno poi sommati 200-300 militari impiegati per la maggior parte nel Kurdistan iracheno con compiti di addestramento delle truppe locali. Inoltre, sempre nell’estate del 2014, fu inviato in Kurdistan svariato materiale bellico (mitragliatrici pesanti, razzi controcarro e rispettivo munizionamento) al fine di aiutare i Peshmerga curdi nella lotta contro ISIS. Da questo punto di vista, quindi, nuove azioni militari in Iraq implicherebbero un ulteriore coinvolgimento su un fronte in cui il Governo italiano, considerando anche l’Operazione Antica Babilonia (2003-2006), si è già impegnato da tempo investendo consistenti risorse militari e politiche e aprendo così la strada anche a ingenti investimenti di importanti industrie nazionali, come ENI che è presente in Iraq dal 2009 e dove gestisce in consorzio il giacimento di Zubair (giacimento a ovest di Bassora, di cui detiene il 41,6% della proprietà, e che nel 2014 ha prodotto 21 mila barili/giorno in quota ENI).

Il secondo aspetto, più complesso, riguarda ciò che sta avvenendo in Medio Oriente, una situazione ormai critica, che più di un esperto compara alla guerra dei 30 anni (R. Haas,). Al di là di tali comparazioni storiche, sempre pericolose e imperfette, è importante sottolineare come gli attuali conflitti mediorientali - dalla Libia all’Iraq, dalla Siria alla Palestina, senza dimenticare le fragili situazioni interne dell’Egitto (con il problema del Sinai), della Turchia (con l’instabilità portata dalle opposizioni curde e dai miliziani dell’ISIS) e del Libano (con le fratture interne aggravate dalla crisi dei profughi siriani) - non solo si basino tutti su interessi geoeconomici e rivendicazioni politico-religiose estremamente vari e complessi, ma abbiano anche l’effetto – ciascuno con le proprie logiche e dinamiche interne - di contribuire ad alterare profondamente l’equilibrio politico regionale.

Questo aspetto è sicuramente quello più rilevante da prendere in considerazione e, al contempo, quello su cui pare ci sia meno attenzione nel dibattito pubblico. Per esempio, considerare Iraq e Siria due teatri distinti è un errore strategico. L’Iraq è ormai un failed state spaccato in tre regioni (i Curdi a nord autonomi fin dal 1991; i Sunniti nel centro-ovest del Paese in parte controllato ormai da più di un anno dall’ISIS; gli Sciiti nel centro-sud) e con enormi problemi di sicurezza, corruzione e di unità nazionale. La Siria è ancor più un failed state insanguinato da quattro anni di guerra civile, dove svariate milizie si confrontano e dove il potere di Assad è ancora presente in alcune aree, ora difese anche dalla potenza russa. I miliziani dell’ISIS si muovono sul territorio di entrambi i Paesi considerandolo ormai come uno spazio unitario (“Siraq”). Una considerazione similare, seppur con obiettivi e modalità ben diversi, sta alla base anche della politica curda, turca e iraniana. In tale contesto, pensare a un intervento militare teso a ristabilire la situazione ante è pura utopia politica. Ciò che serve è invece un progetto politico che guardi al futuro, un nuovo patto Sykes-Picot in grado di ridisegnare il Medio Oriente in base ai nuovi equilibri di potere, ma il problema attuale è che tali equilibri non sono per nulla ben delineati. Un esempio di tale impasse può essere il caso curdo, poiché appoggiare i Curdi è una politica di lungo corso dell’Occidente, ma ciò porta a un loro rafforzamento, il che a sua volta conduce sia al dover riconoscere, anche se al momento non ufficialmente, l’esistenza di una regione curda autonoma tra Iran, Iraq, Turchia e Siria, sia rafforzare ciò che la Turchia, nostro partner Nato, percepisce come una minaccia alla sua integrità culturale e territoriale.  In Medioriente così come in tutta la regione del Mediterraneo è in atto un riallineamento di equilibri politici durati quasi un secolo: bisogna prenderne atto e agire di conseguenza, altrimenti si corre il rischio di subire gli eventi anziché di riuscire a guidarli almeno parzialmente.

Di tutto ciò dovrebbero tener conto i decisori politici italiani quando mettono in agenda un coinvolgimento militare del Paese in Medio Oriente. L’azione militare non è mai dissociata da un progetto politico ed è su questo punto che mi pare ci sia una certa confusione, che proverò in parte a chiarire.

Per quasi 15 anni, l’Italia ha dedicato risorse, umane ed economiche in Afghanistan, un paese lontano, costantemente fragile (come dimostra la recente battaglia a Kunduz) e dove l’Italia non aveva (né ha adesso) particolari interessi politici o economici. Oggi, però, il fatto che l’Italia abbia solo in parte e obtorto collo accettato la richiesta americana di prolungare la propria presenza nel Paese fino al 2016 dimostra come la politica estera non prenda più in considerazione quel teatro.

È attualmente in corso un’operazione italiana di peacekeeping in Libano di cui non si parla mai, ma che potrebbe rappresentare un elemento importante per quanto riguarda la presenza italiana in Medio Oriente e il riconoscimento delle capacità diplomatiche e di mediazione del nostro Governo. Malgrado molti limiti, è significativo ricordare come, a metà novembre 2015, il Presidente iraniano Hassan Rohani abbia scelto proprio il nostro Paese per la prima visita ufficiale in Europa dopo il tanto discusso accordo sul nucleare.

Militarmente parlando, l’Italia non è una grande potenza e non ha a disposizione le risorse, umane, economiche, logistiche e politiche per giocare un ruolo di primo piano in teatri lontani e impegnativi nel tempo. In più, i problemi di bilancio connessi con la crisi impongono una ancora più attenta selezione delle azioni da finanziare, limitandole alle sole aree di primario interesse per il Paese. In quest’ottica, il coinvolgimento in “Siraq” non sembra essere una scelta oculata (per la complessità di cui si è detto) e nemmeno prioritaria (per gli interessi del Governo).

Diversamente, sarebbe più sensato pensare al coinvolgimento in Libia, paese nel quale l’ISIS  è radicato in modo più limitato e con capacità offensive più ridotte rispetto a quelle presenti in Siraq, e dove l’Italia ha profondi interessi economici e politici. Basti pensare che è proprio dalla crisi politica scaturita dal crollo del regime di Gheddafi che si è creato terreno fertile per la criminale tratta dei migranti che quotidianamente sbarcano (o cercano di sbarcare) sulle nostre coste.

Certamente, dal punto di vista politico la situazione in Libia è alquanto complessa visto il fallimento dell’inviato speciale dell’ONU Bernardino Leon che, dopo aver annunciato la firma dell’accordo tra i due governi (Tobruk, riconosciuto a livello internazionale, e Tripoli) e le diverse fazioni, ha registrato una serie di dichiarazioni in senso contrario da parte dei diretti interessati. Il problema fondamentale è che l’accordo prevede una sorta di spartizione del potere tra le varie parti, senza però che sul terreno esista un monopolio dell’uso della forza: infatti, decine di milizie locali e tribali controllano il territorio e gruppi jihadisti di diversa natura continuano indisturbati a porre una grave minaccia alla stabilità del Paese. Con i giusti passi, però, il Governo italiano può cercare di sfruttare questa situazione per proporsi come “potenza” regionale all’interno dell’area mediterranea.

Ad esempio, è stata di recente avviata nelle acque internazionali davanti alla costa libica la seconda fase della missione navale europea EuNavFor Med. La missione, finanziata con lo scopo di contrastare il traffico di esseri umani nel Mediterraneo, è intesa da alcuni analisti come propedeutica a un probabile intervento militare italiano, inquadrato ovviamente all’interno di un mandato internazionale finalizzato a stabilizzare la situazione interna della Libia attraverso azioni di addestramento, armamento e intelligence fornite a truppe locali (ma a questo punto sorge la domanda del chi sostenere).

La Libia, dunque, nel quadro di un Mediterraneo sempre più scosso da profondi sommovimenti geopolitici, sembra emergere come una priorità per l’Italia e, seppur con ritardo e molto lentamente, è in questa direzione che pare ci si stia muovendo. Bisogna però evitare di commettere l’errore di ragionare utilizzando ‘vecchie’ partizioni politico-amministrative e superati scontri geopolitici, ma prendere atto della situazione sul campo e lavorare, insieme con gli altri paesi Nato e EU, a una strategia complessiva di intervento nel Mediterraneo.