Il sì al referendum è coerente con la prospettiva liberale in quanto mezzo per ottenere una maggiore efficacia decisionale, un miglior bilanciamento nei pesi e contrappesi tra i diversi poteri e il controllo della spesa pubblica.

«La Libertà è un bene morale, come la fede; non è qualcosa che possa venirci elargito, o cui basti inneggiare perché già ci sia, perché - come tutti i valori morali- essa sussiste solo come conquista continua (cioè, non si è “liberi”, come non si è “buoni”, una volta per sempre) e, come tale, suscettibile di incremento continuo, di affermazione sempre più perfetta, così come è passibile di umiliazioni, di decurtazioni, di annullamento.
La libertà ha dunque una creazione, che ad ogni moto si rinnova e si accresce, si perde e si ritrova ed è sempre in pericolo ed è sempre un atto di volontà e spesso ancora un atto di coraggio.» 
Gilberto Barbero
Dal giornale antifascista clandestino “L’Alfiere”, 1945


Il punto di vista liberale sulla Costituzione

Una Costituzione può essere valutata, secondo una prospettiva liberale, essenzialmente sulla base di due criteri:

  1. Il rapporto tra rappresentatività democratica ed efficienza decisionale/governabilità. Un sistema democratico deve essere in grado di dare ampia rappresentanza delle componenti socio-culturali ed economiche della società ma deve essere anche capace di prendere ed attuare le necessarie decisioni a tempo debito. L’efficacia decisionale non è solo questione di competitività, ma anche di “agibilità” democratica: una democrazia  incapace di agire è destinata a declinare lasciando spazio a populismi anarchici o autoritari.

  2. L’efficacia del sistema dei “pesi e contrappesi” tra diversi poteri e articolazioni dello Stato, tale da assicurare un controllo reciproco reale, ma non paralizzante: Esecutivo/Legislativo/Giudiziario; Stato Centrale/Regioni/Enti Locali; tra Istituzioni pubbliche, corpi sociali intermedi organizzati (associazionismo sociale ed economico), potere mediatico e dell’informazione.

  3. Esiste poi un terzo criterio, che è importante per qualsiasi società: il controllo della spesa pubblica. In una prospettiva liberale, questo aspetto è particolarmente importante, perché va ad incidere su una libertà essenziale del cittadino: quella economica, quella di risparmiare e di investire. 

Attività legislativa e funzioni del Parlamento

Negli ultimi settant’anni di storia del nostro Paese, durante i quali è stata applicata la Costituzione vigente, il Parlamento bicamerale “perfetto” ha sempre dimostrato, tranne nel primo periodo degli anni ‘50, lentezza nella produzione legislativa, a causa dell’effetto “ping pong” tra le due Camere. Questo problema, già paventato dai “padri costituenti”, è andato aggravandosi nel tempo, peggiorando sensibilmente anche la qualità del linguaggio legislativo (chiarezza linguistica, coerenza tra le diverse parti dei provvedimenti, ecc). Il 69,4 % delle leggi italiane ha richiesto, per essere approvato, un doppio passaggio alle Camere e il 30,6 % passaggi ancora più numerosi; la legge sull’Equo Canone ha richiesto 21 passaggi!

Questa situazione ha spinto i Governi (tutti i Governi, di qualsiasi tipo di maggioranza) a ricorrere sempre più spesso alla decretazione d’urgenza, per assicurarsi tempi “decenti” per la produzione legislativa. Ciò ha implicato un impoverimento dell’attività e del dibattito parlamentare, ben esemplificata dalla trasformazione dei Decreti Legge in “mostri giuridici” contenenti i temi più vari e incapaci di dare ai cittadini un’informazione chiara, facilmente “leggibile” dei provvedimenti.

Alla base di questa dinamica, ci sono ovviamente i dati della “costituzione reale”, definita dai rapporti tra le forze politiche e tra queste e i corpi intermedi organizzati e i “gruppi di pressione”, dalla frammentazione politica e dall’instabilità dei Governi. Ma anche le regole del gioco costituzionale hanno, ovviamente, un ruolo fondamentale nell’assecondare/esasperare o contenere/correggere le derive implicite nelle dinamiche reali dei rapporti di forza. In questo senso, le modifiche proposte dalla riforma costituzionale rappresentano un indubbio passo in avanti verso efficienza e trasparenza, pur non cambiando affatto l’equilibrio tra potere esecutivo e potere legislativo.

Rispetto alle critiche di “autoritarismo” lanciate dallo schieramento del NO, la riforma non cambia infatti le prerogative del Presidente del Consiglio, e la questione non si pone in termini concreti. Piuttosto, la riforma modifica composizione e funzioni del Senato, limitandone a pochi argomenti (leggi costituzionali, decisioni dirette alla formazione e attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione Europea, leggi relative alle autonomie locali e ai referendum popolari) l’attività legislativa, che, in tali casi, rimane bicamerale. Inoltre, con una decisione altrettanto importante, stabilisce la parziale riforma della Camera dei Deputati. Essa infatti prevede che il Governo possa richiedere una “corsia preferenziale” per Disegni di Legge essenziali per la sua azione, con votazione in data certa. Ciò limiterà, di fatto, l’esigenza della decretazione d’urgenza, per quale la riforma stabilisce, inoltre, limiti per quanto riguarda i contenuti, per evitare i Decreti “lenzuola”. In tali previsioni, ricorre non solo un aspetto di efficienza legislativa, ma anche un obbiettivo di trasparenza e maggiore coinvolgimento dell’elettorato, nonché il tentativo di ricentrare l’attività parlamentare sull’elaborazione e discussione dei provvedimenti legislativi.

Composizione del Senato. Al nuovo Senato spetterà il compito di dare rappresentanza complessiva alle autonomie locali. La sua composizione sarà frutto di elezioni di secondo grado, in quanto i suoi componenti verranno designati dai Consigli Regionali: questo procedimento ha messo in dubbio la sua capacità di rappresentanza ed ha portato alcuni ad affermare che il Senato diventerebbe un “ricettacolo” di designati dai Partiti, a discapito della rappresentatività del Parlamento. Tecnicamente l’osservazione non è però pertinente. Il nuovo Senato sarà composto da 100 membri, invece degli attuali 315: 5 di nomina del Presidente della Repubblica (come attualmente, ma non a vita, bensì con scadenza al termine del mandato del Capo dello Stato); 95 indicati dai Consigli Regionali, scegliendone 21 tra i Sindaci (almeno 1 per Regione) e 74 tra gli eletti Consiglieri Regionali “in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio” e “in conformità delle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo” dei Consigli. La scadenza dei Senatori è collegata a quella degli organi per i quali sono stati eletti. I Senatori saranno quindi soggetti che si sono sottoposti al vaglio elettorale e i Consigli Regionali dovranno operare le loro scelte in base ad una legge successiva, che dovrà tenere conto dei criteri sopra enunciati. Il nuovo Senato sarà dunque slegato dalle vicissitudini sia del Governo che della Camera; il che significa che godrà di grande autonomia nella propria funzione di rappresentanza dei territori.

Coinvolgimento diretto dei Cittadini nell’attività legislativa. La riforma, attribuisce maggiori possibilità e maggiori certezze all’iniziativa dei “cives”. Vengono innanzitutto introdotti anche in Italia i referendum propositivi. Viene inoltre abbassato il quorum dei referendum abrogativi, qualora vengano presentati con un minimo di 800.000 firme anziché 500.000. Ma, forse, l’innovazione più importante è quella relativa al “disinganno”. Il numero delle firme necessarie per poter presentare al Parlamento una legge di iniziativa popolare viene innalzato dalle attuali 50.000 a 150.000, per assicurare che essa risponda realmente ad una comune e diffusa esigenza; in compenso, il regolamento della Camera dovrà indicare un termine entro cui le proposte dovranno essere esaminate e discusse. In questi 70 anni, le proposte di iniziativa popolare sono state regolarmente “insabbiate” e ignorate. Queste innovazioni costituzionali, se opportunamente colte dai cosiddetti “corpi intermedi” e dai movimenti di opinione, potrebbero rianimare quella voglia di partecipazione attiva alla politica, che si è andata disperdendo nel nostro Paese, in conseguenza di tanti scandali, ma anche di tanto immobilismo.

La riforma della disciplina del reato di violenza sessuale

Per meglio comprendere la portata positiva degli aspetti finora analizzati della riforma  è utile ripercorrere brevemente la vicenda della riforma del codice penale italiano nella parte relativa ai reati di violenza sessuale e a causa d’onore.

Nel 1965, per la prima volta nel Mezzogiorno d’Italia, una ragazzina 17enne di Alcamo rifiuta il “matrimonio riparatore” offerto dal suo violentatore. Questo fatto, insieme ad alcune importanti pellicole cinematografiche (“Divorzio all’italiana”, “Sedotta e abbandonata”, “La ragazza con la pistola”), gettano una luce inquietante su alcuni articoli dell’allora vigente Codice penale L’art. 544 del codice penale, promulgato durante il Fascismo (cosiddetto Codice Rocco), prevedeva infatti l’annullamento di ogni conseguenza penale per l’aggressore, e per i suoi eventuali correi, nel caso in cui egli si fosse offerto di sposare la vittima e questa avesse accettato. Mentre l’art. 587 prevedeva che chi provocava la morte del coniuge o di un familiare perché offeso per motivi di adulterio o di rapporti sessuali fuori dal matrimonio, poteva essere condannato a 3 massimo di 7 anni di carcere, che in caso di soggetti incensurati, potevano ridursi a pene irrisorie.

Ebbene, quando, finalmente, il bicameralismo perfetto avrebbe consentito di superare normative così evidentemente arcaiche e superate? Settembre 1981, con l’abrogazione di questi due articoli: dagli inizi degli anni ’60, una bella attesa!! Ma non è finita. I due articoli citati avevano una premessa logica e teorica (Alfredo Rocco, Ministro della Giustizia dal 1925 al 1932, era tutt’altro che sprovveduto o incompetente) nel fatto che i reati di violenza carnale erano inseriti nel Titolo del codice penale dedicato ai reati “contro la morale e il buon costume”. Non si trattava, quindi, di reati contro la persona che li subiva e gli articoli 544 e 587 si inserivano in un quadro complessivo coerente. Ma la riforma di questa parte, non irrilevante, del Codice venne licenziata dal Parlamento italiano solo nel Febbraio 1996 (!!!!): un iter lunghissimo e travagliato, iniziato nel 1979, con proposte di legge avanzate da tutte le forze politiche, con una proposta di iniziativa popolare nel 1980 (con ben 300.000 firme di sostegno), continui rimandi tra Camera e Senato, per sbloccarsi, poi, definitivamente nel 1995 con una proposta di legge presentata congiuntamente da 67 parlamentari di tutti i gruppi politici e approvata nell’anno successivo. Con le norme costituzionali attuali, tutto ciò non sarebbe più possibile, o almeno sarebbe più difficile: niente ping pong tra Camera e Senato e possibilità di avere date o termini certi per la votazione delle leggi.

“Pesi e contrappesi” tra Camera, Senato e Corte costituzionale

Un altro aspetto importante della riforma riguarda la funzione di “monitoraggio” che il nuovo Senato sarà chiamato a svolgere verso l’attività legislativa della Camera. Esso, infatti, avrà un ruolo di “richiamo” sull’attività dell’altro ramo del Parlamento, perché potrà invitarla a “rivedere” i propri provvedimenti; la Camera non sarà obbligata a tener conto delle osservazioni del Senato, ma dovrà deliberare di nuovo, il che potrà indurre riflessioni ulteriori grazie ai pareri di un organismo, il Senato, che non può essere sciolto. Quest’azione è tutta sottoposta a termini temporali precisi, per evitare lungaggini. Il Senato, inoltre, ha compiti di valutazione sulle politiche pubbliche, sulle attività delle pubbliche amministrazioni, sull’attuazione delle leggi, sull’impatto delle politiche dell’UE sui territori. Al Senato, la riforma attribuisce quindi, nel complesso, un compito di cerniera tra territori locali, Stato e Unione Europea: un ruolo nuovo, che cerca di attrezzare le nostre articolazioni istituzionali rispetto alla necessità di inserirsi nel contesto europeo e confrontarsi con le Istituzioni UE. Come si è visto, anche l’azione normativa dell’Esecutivo subisce un limite nei nuovi “paletti” posti alla decretazione d’urgenza, che dovrà riguardare misure immediatamente applicabili e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo. La riforma attribuisce, infine, un nuovo compito alla Corte Costituzionale, rafforzandone il ruolo nell’equilibrio tra Esecutivo e Legislativo. Essa infatti introduce il controllo costituzionale preventivo sulle leggi elettorali: qualsiasi legge di questo tipo, prima di entrare in vigore, potrà essere sottoposta alla verifica della Corte Costituzionale su richiesta di un quarto dei deputati della Camera, o di un terzo del Senato. Questo provvedimento costituirà anche un elemento di stabilità, in quanto eviterà incertezze sulla legittimità della composizione della Camera dei Deputati.

I rapporti Stato-Regioni

Nell’equilibrio tra i “pesi e contrappesi”, un aspetto fondamentale è il rapporto tra lo Stato e le sue articolazioni regionali. La riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 ha infatti creato molti problemi di sovrapposizione delle competenze, con situazioni di ingovernabilità in settori cruciali per il Paese, di “protagonismi” molto costosi da parte di alcune Regioni e continui contenziosi tra queste e lo Stato centrale. Contro queste inefficienze, l’attuale riforma prevede innanzitutto il ritorno alla competenza esclusiva dello Stato in materie fondamentali per il sistema-Paese, che erano state prima frammentate: energia, autostrade, reti strategiche, banda larga, sistema portuale e aeroportuale di intereresse nazionale e internazionale, sistema di protezione civile. Non solo: su proposta del Governo, la Camera potrà legiferare anche in campi di competenza delle Regioni “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale” (cosiddetta “clausola di supremazia”). Alle Regioni, restano le competenze legislative in materie tradizionalmente proprie: pianificazione del territorio regionale, mobilità al suo interno, dotazione infrastrutturale, programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali, promozione dello sviluppo economico locale e organizzazione in ambito dei servizi alle imprese e in materia di servizi scolastici, istruzione, promozione del diritto allo studio, anche universitario. Scompare quindi la cosiddetta “legislazione concorrente”, suddivisa tra competenze dello Stato e competenze delle Regioni, dove è sempre stato difficile definire una ripartizione chiara, che evitasse sovrapposizioni. Ma, in alcune materie, lo Stato si riserva ancora la potestà di emanare “disposizioni generali e comuni”, ovvero in tema di Istruzione, attività culturali, turismo, previdenza sociale, tutela, sicurezza e politiche attive del lavoro. Le Regioni avranno però la possibilità di richiedere maggiori competenze legislative (Federalismo differenziato), qualora rispettino la condizione dell’equilibrio di Bilancio, quindi di una gestione virtuosa degli affari regionali. Tra le materie previste: politiche sociali, commercio con l’estero, politiche attive del lavoro e Istruzione e Formazione Professionale, governo del territorio, tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici, ambiente.

È evidente che, tra i motivi di queste modifiche, stanno l’efficacia e la rapidità decisionale; le esigenze di competitività economica e di coerenza nelle politiche essenziali, di natura economica ed infrastrutturale, del Paese; la necessità di impedire derive finanziarie, pericolose per l’equilibrio della Nazione. Le competenze sono quindi più nettamente distinte tra Stato e Regioni e lo Stato si riappropria di alcune prerogative. I sostenitori del NO rispondono che queste innovazioni svuotano gravemente le autonomie. Tale critica sottovaluta il ruolo politico del nuovo Senato, chiamato a divenire l’“Avvocatura” delle autonomie nei confronti sia dello Stato centrale, che dell’Unione Europea. Un ruolo che va ben al di là delle competenze tecniche dell’attuale Conferenza Stato/Regioni e che viene affidato ad un organo dotato, come si è visto, di grande autonomia rispetto sia alla Camera, che al Governo: le Regioni acquisiranno un maggiore peso politico nel rapporto con l’Unione Europea attraverso la voce comune, ed autonoma, del Senato.

Controllo della spesa pubblica e razionalizzazione dei costi della politica e della pubblica amministrazione

C’è, infine, un’ultima importante questione da prendere in considerazione, da un punto di vista liberale: l’obbiettivo di definire strumenti finalizzati al controllo di gestione e al contenimento della spesa pubblica: una questione vitale per il nostro Paese dove, tra debito pubblico (debito: 2.252 mld debito/PIL 132,6%), ammontare della spesa annuale di bilancio (deficit/PIL: 2,6%) e pressione fiscale (43,5%), la libertà economica di persone, famiglie, imprese ha subito un processo sempre più stringente di soffocamento.

In questo lievitare continuo della spesa pubblica, il Parlamento bilaterale perfetto ha saputo interpretare benissimo le spinte provenienti dai corpi sociali organizzati a favore di assistenzialismi e soccorsi di vario genere, di istanze e privilegi corporativi, di ipertrofia pensionistica (in seguito, duramente pagata). Molto meno ha saputo interpretare un’altra parte della società, che assisteva con sgomento al crescere delle tasse, fino a manifestare il proprio malessere nei vari movimenti anti – fisco, nella “rivolta” padano/leghista, nella cosiddetta “questione settentrionale”. Tutti segnali ignorati; semmai, in alcuni casi, “assorbiti” nel muro di gomma consociativo. Di fronte a ciò, la riforma costituzionale assume alcuni provvedimenti di semplificazione/riordino degli enti territoriali e di alcuni organismi pubblici e mette in atto meccanismi di controllo di gestione delle finanze pubbliche.

Taglio dei costi. La riforma conclude il processo di eliminazione delle Province. Elimina il CNEL: previsto dall’attuale Costituzione come organo di consultazione del Governo per la definizione delle politiche economiche del Paese, esso è andato perdendo sempre più un ruolo e un significato che in realtà, fin dall’inizio, ha faticato ad assumere, se non quello della distribuzione di prebende. Nella sua lunga e costosissima vita (un Presidente, 121 consiglieri, ridotti dal Governo Monti a 64, retribuiti indipendentemente dallo svolgimento di pur minime attività) non ha prodotto alcuna proposta approvata.

Come si è visto, la riforma riduce inoltre il numero dei Senatori da 315 a 100 membri, privi di indennità, oltre a quelle già percepite per la loro appartenenza agli organi di cui sono espressione. Infine, essa ridefinisce le indennità dei Consiglieri Regionali. Queste, infatti, non potranno più superare quella del Sindaco della città capoluogo di Regione. Si pone così fine agli eccessi retributivi della rappresentanza regionale, una delle meglio retribuite del nostro sistema politico.

Meccanismi di contenimento della spesa pubblica. Come già sopra accennato, la riforma prevede che lo Stato possa esautorare i titolari dei governi regionali e locali nel caso di “fallimento politico” o di grave dissesto finanziario. Basta ricordare alcuni dissesti “a voragine” di alcune Regioni e grandi città italiane, per comprendere la potenzialità di questa previsione. A rinforzo, tra i casi in cui lo Stato potrà sostituirsi a Regioni, Comuni, Città Metropolitane vi è quello della “tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica”. Va considerato che queste norme costituirebbero per lo Stato uno strumento non solo di cura, ma anche di dissuasione dalla dilapidazione del denaro pubblico, con un potenziale effetto preventivo. Tutto ciò dovrà essere regolato da una legge e non ci dobbiamo illudere: subito si attiveranno lobbies e “lobbine”, gruppi e gruppuscoli di pressione per legare le mani all’Esecutivo; e sarà comunque difficile, in un eventuale futuro, trovare un Presidente del Consiglio così coraggioso da far ricorso, se del caso, a questi provvedimenti. Ma, forse, non è da escludere che tutta questa opposizione alzatasi contro la riforma non miri proprio a difendere fino all’ultimo i “quartierini locali” della dissipazione.

Infine, il nuovo testo costituzionale prevede che una legge definisca costi e fabbisogni standard come parametri per l’utilizzo razionale delle risorse per il funzionamento della Pubblica Amministrazione: è evidente l’obbiettivo di un maggior controllo gestionale sulla quantità e qualità della spesa pubblica. Questa norma tenta, evidentemente, di “mettere la briglia” sui costi a monte, attraverso migliori criteri di gestione, piuttosto che dover tagliare a valle. I critici della riforma sostengono che i risparmi derivanti dalla modifiche costituzionali sarebbero “modesti”.  Si potrebbe rispondere che, forse, nell’immediato sì, sebbene incominciare non sarebbe una cattiva idea. Ma ciò che contano sono le modifiche di sistema e questo dipenderà da come le leggi di attuazione le applicheranno; intanto, però, sarebbe molto utile e maggiormente vincolante iniziare a stabile principi di buona amministrazione su base costituzionale.

Conclusioni

Certo, la riforma avrebbe potuto essere più coraggiosa: ridefinire, per esempio, i poteri del Presidente del Consiglio, ma già così viene accusata di disegni autoritari e oligarchici; accorpare alcune Regioni ed eliminare le Regioni Autonome, ma già così si grida all’offesa alle autonomie. Sicuramente, avrebbe potuto essere scritta meglio, in modo più chiaro e preciso, senza le ambiguità purtroppo tipiche del linguaggio giuridico affermatosi nel Paese negli ultimi 50 anni: ancora sotto il regno della Prima Repubblica delle “convergenze parallele”, del “partito di lotta e di governo”, del “né con, né contro lo Stato” e dell’ineffabile lessico demitiano. Questa riforma costituzionale è forse solo un tentativo di cambiare, per attrezzarci meglio per il futuro. Ma bisogna riconoscere che essa segna un passo avanti per adeguare il nostro sistema-Paese alle esigenze della contemporaneità; alla necessità di confrontarsi non episodicamente, ma con continuità, con il livello europeo e di attivare metodi di efficienza pubblica; infine, ma non ultimo, di dare risposta al bisogno impellente di riformare la politica, offrendo più spazio alla partecipazione dei cittadini alla “cosa pubblica”, nella speranza di “scrollare” la passività civica, generata dal senso di frustrazione conseguente dal malaffare pubblico, dall’immobilismo sociale, dallo scarso riconoscimento dei meriti e dall’“invasione barbarica” della comunicazione spazzatura.