Dal 26 al 28 settembre si è tenuta a Bolzano-Bozen l'Innovation Festival, una serie di incontri e seminari dedicati all’innovazione. Il tema del Festival era la montagna, cosa che non dovrebbe sorprende vista la collocazione geografica della provincia autonoma. Ma lo svolgimento del tema desta in effetti qualche sorpresa. Invece di prendere l’esistente per scontato e studiare il modo di preservarlo (come avviene in genere quando si parla di ecosistemi), l’iniziativa è partita ponendosi domande radicali sulla sostenibilità dell’esistente. Ad esempio: la provincia autonoma ha investito molto nell’economia del turismo sciistico; ma siamo sicuri che in futuro la gente vorrà ancora sciare?
Questo approccio radicale ha portato il Festival a porsi domande su temi che apparentemente con la montagna hanno poco a che vedere: il crowdsourcing, il big data, l’innovazione sociale, solo per citarne alcuni. Il messaggio è chiaro: l’esistente non lo si può preservare se non lo si inserisce in una dinamica di cambiamento. A questo riguardo è stato esplicito uno dei relatori intervenuti, l’architetto Italo Rota. Nel cercare di risolvere i problemi dell’esistente, sempre più ci attrezziamo per riporre ciò che ci piace in apposite vetrine. La speranza è che le vetrine possano proteggere ciò che amiamo. Questa però non è innovazione, ma musealizzazione dell’esistente. La vera innovazione non persegue questo obiettivo. Innovare è capire la dinamica di mutamento già in atto così che possa essere tenuta nell’alveo del desiderabile. È qui che saperi tecnici e umanistici si mescolano con il comune obiettivo di edificare l’individuo e promuovere la comunità.
Questa concezione dinamica dell’innovazione mi pare talmente convincente che vorrei fosse applicata al caso italiano nella sua interezza e non solo alla provincia autonoma di Bolzano-Bozen. Proviamo a immaginare a quali risultati porterebbe.
1. Innovazione tecnologica. L’Italia punta molto, e a ragione, su quello che è stato chiamato il “made in Italy”. Oggi questo marchio è appannato. La domanda radicale da porsi non è come conservare i grandi marchi del made in Italy o come promuoverli ulteriormente. Piuttosto la domanda è: ma in futuro, la gente vorrà ancora acquistare ciò che definiamo made in Italy? Per rispondere a questa domanda ricordiamoci che cosa viene designato con questo marchio di produzione: l'applicazione delle tradizioni artigianali con cui si producevano beni di lusso alla produzione di beni di massa. Ossia, il “gusto” e la “maniera” aristocratica usati per dare “lo stile” alle produzioni in serie. A ben vedere, quindi, il made in Italy è stato il risultato della democratizzazione del paese.
Vorrà la gente acquistare in futuro merce di questo genere? C’è da dubitarne. Il gusto aristocratico ormai non è più alla moda, e le produzioni italiane si sono spostate dove la manodopera costa meno. Basterà quindi riportare le produzioni in Italia e dare loro uno stile più alla moda per riportare in auge il made in Italy? Francamente non lo so. Ma proviamo a guardare al problema dall’altro punto di vista, ossia quello che inquadra il made in Italy come il risultato della democratizzazione di qualcosa che prima era appannaggio di una ristretta élite.
Nel passaggio dal Regno alla Repubblica ciò che fu reso disponibile alle masse fu appunto il gusto aristocratico per quello che i francesi chiamano l’éclat, l’eclatante. Un cappellino sulle ventitré. Un’auto che pare un razzo. Una poltrona che ci rende sovrani a casa nostra. Tutto ciò che di artigianale la grande industria può produrre.
Cosa può oggi essere democratizzato e reso accessibile alle masse?
Se ci poniamo questo problema capiamo subito come l’innovazione tecnologica che ha saputo adattare le pratiche artigianali alla grande industria è sì ancora una risorsa d’innovazione, ma non una fonte di innovazione in sé. Per rianimare il made in Italy occorrerebbe infatti generare una nuova spinta dal basso che sia di forza equivalente a quella generata dalla caduta del fascismo. Fu quella spinta, ovvero l’innovazione sociale di quegli anni, a muovere l’innovazione tecnologica, non il contrario.
2. Innovazione sociale. La prova del nove di quanto dico la troviamo nel caso Barilla di questi giorni. Un atteggiamento ostile all’innovazione sociale ha inflitto non solo un grave danno d’immagine alla Barilla (scuse o non scuse), ma all’intero sistema del made in Italy. In un momento storico in cui le società più avanzate sono sempre più tolleranti delle diversità, l’affermazione di Guido Barilla, secondo cui la comunicazione pubblicitaria dei suoi prodotti mai verrà indirizzata verso famiglie non tradizionali, ha prodotto una ondata di risentimento che in alcuni contesti (la California, ad esempio) si sta già facendo boicottaggio.
È vero che la ricetta conservatrice caratterizza il marketing di tutto il settore agro-alimentare. Ma veicolare idee conservatrici attraverso prodotti alimentari di largo consumo funziona solo fintanto che garantisce della “qualità” del prodotto. In questo settore, “fatto con metodi tradizionali” significa “non adulterato” e quindi “genuino”. Il massimo del valore nel campo dell’alimentazione. Ma non appena fa capolino l’idea che solo la famiglia tradizionale garantisce sentimenti genuini, il consumatore si sente preso in giro. Le donne non sono più al centro del focolare domestico, ma ambiscono a lavorare: fa parte della loro realizzazione, come persone e in quanto membri della comunità. I figli sono intolleranti del paternalismo che li spinge all’obbedienza generazionale e la tolleranza verso chi vive la propria sessualità in modo aperto e sincero è diventata quasi universale.
Se l’Italia ricomincerà a produrre ondate d’innovazione sociale come quelle prodotte alla caduta del fascismo, riuscirà anche a trovare la strada verso la produzione di merci che anche altri paesi troveranno desiderabili. Il made in Italy trasmetteva una vibrazione di libertà pur usando temi e materiali apparentemente d’élite.
3. Il futuro. Il vero problema italiano non è il declino industriale. Ma è il declino culturale che ha prodotto il declino industriale. Non siamo più una società che segue e persegue i propri sogni di libertà. Da troppi decenni ci dibattiamo in esercizi di transizione il cui risultato è il triste ritorno dell’uguale. La storia però ci insegna che se impariamo ad avere fiducia in noi stessi, tanto da tollerare la libertà di ciascuno, nulla ci sarà negato.
Vorremo quindi andare a sciare in futuro? Fa bene la provincia autonoma di Bolzano-Bozen a chiederselo. Come farebbe bene l’intero paese a chiedersi se non sia arrivato il momento di promuovere un nuovo boom industriale lasciando tutti liberi di inseguire i propri sogni.
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