Dopo dodici anni di onorato servizio, la Rai toglierà a Giovanni Minoli "La storia siamo noi" e lo affiderà a un volto nuovo? Oppure si limiterà a chiudere la trasmissione tout-court? Nella consueta ridda di annunci e smentite, sembra che l'ultima puntata del programma di divulgazione sinora condotto dal giornalista andrà in onda a giugno. Non si conosce, allo stato attuale, quale sarà il prosieguo. Ci si augura che lo spazio sopravviva e che venga messo in mano a giovani professionisti (qualcuno ha fatto il nome di Cristiana Mastropietro e di Alessandro Carbone), ma il timore che il vuoto catodico sarà riempito dall'ennesimo prodotto commerciale (un polpettone generalista, un quiz, un reality) resta fondato.

1. Non c'è bisogno di tesser le lodi di Minoli per riconoscergli dei meriti innegabili, come quello di esser da lungo tempo uno dei protagonisti della nuova televisione italiana. Genero di Ettore Bernabei, in Rai dal 1978, a lungo direttore di Rai Educational, è stato capace, a partire dagli anni Ottanta, di reinventare la comunicazione televisiva coniugando l'immediatezza espressiva con l'intento educativo di cui il suocero si era fatto paladino.

Abituato a un contatto molto ravvicinato con il mondo politico e con il potere, abile nel cogliere gli aspetti drammatici della cronaca e nel dare loro la dovuta enfasi, Minoli è anche e soprattutto un disinvolto drammatizzatore - memorabile l'imitazione che ne fece Corrado Guzzanti -, attento all'audience, capace di arrivare con immediatezza al cuore e alle viscere del telespettatore. Non a caso proviene dal quell'universo socialista che ha prodotto in Italia alcuni dei migliori gestori di suggestioni ed emozioni, da Craxi a Pertini, da Nenni a Mussolini.

"La storia siamo noi" ha rappresentato per Minoli il passo successivo in un percorso che arriva al racconto della storia da quello della cronaca, dall'attualità scottante, impellente, delle notizie "che non possono attendere", racchiusa (si veda Mixer) in una narrazione alla portata di tutti. L'invenzione dell'autore/conduttore è stata di raccontare i fatti storici con il medesimo stile col quale si portavano al pubblico le vicende noir, politiche, sportive accadute in tempo reale, senza cedere però alla tentazione della banalizzazione dei contenuti.

Parallelamente, sempre a fine anni Novanta, la Rai lanciava, su un registro più rigoroso eppure capace di considerevoli picchi di ascolto, il fortunatissimo "Correva l'anno", che per ora invece resta (per fortuna) in sella alla programmazione senza cambiamenti, condotto da Paolo Mieli e con la consulenza storica di Giovanni Sabbatucci. Tutti questi format hanno attinto, come era lecito attendersi, dall'immenso archivio audiovisivo delle Teche Rai: ulteriore prova di come la nostra TV custodisca un patrimonio di sapere invidiabile, prova a sua volta che la televisione italiana ha prodotto sessant'anni di cose di valore, e che non sempre dobbiamo guardare all'estero per trovare buoni esempi.

La differenza si è vista quando nostre trasmissioni di qualità si sono affiancate ai documentari di History Channel, con le loro traduzioni zoppicanti dall'inglese, le incursioni un po' goffe nella storia antica, romana innanzitutto, vera ossessione di un pubblico statunitense che si rispecchia a grandi linee nel grande impero cosmopolita, ma che lo conosce peggio di noi italiani, che siamo quindi in grado di vagliare il prodotto con occhio più disincantato.

2. Quale che sia la sorte del programma di Minoli, in ogni caso, una riflessione va fatta. Riguarda la divulgazione della cultura, e più specificamente la difficoltà a far emergere, in Italia, un modo "popolare" e insieme "colto" di raccontare il passato. La scuola storica italiana è ricca di studiosi di straordinario spessore; eppure, specialmente negli ultimi decenni, è aumentata di molto l'autoreferenzialità, insieme all'elitismo, a un modo di parlare più al ristretto pubblico dell'accademia che a quello vasto di una nazione in realtà assetata di sapere.

E' inutile che la critica ci ricordi moralisticamente ogni tot che Bruno Vespa o Giampaolo Pansa non sono degli storici, se poi a leggere certe storie dell'Italia repubblicana scritte da storici pure di spessore serve perlomeno una cultura universitaria (e magari un dizionario della lingua italiana), senza contare il rischio di annoiarsi. Minoli ha colto grandemente questa necessità di catturare l'attenzione del pubblico attraverso la teatralizzazione, facendo in modo che nulla gli appaia scontato e che il "tribunale della storia" vada sempre e comunque in scena.

Nel libro "The History Boys" (in italiano "Gli studenti di storia", Adelphi) l'autore Alan Bennett fa dire al suo protagonista, il professor Irwin: "Prendete Stalin. Tutti lo definiscono un mostro, e hanno ragione. Quindi voi dissentite. Trovate qualcosa, una qualsiasi cosa da dire in sua difesa. Oggi la storia non ruota intorno alle convinzioni. E' performance. E' spettacolo. E quando non lo è, fate in modo che lo diventi".

Paradossi, ma non troppo: fare divulgazione intelligente e colta, per emozionare senza vendere leggende o verità da chiromanti, è una bella sfida.

Si diceva della televisione come un luogo di educazione. Non è necessario essere dei seguaci dello Stato etico o dei democristiani moralisti da immediato dopoguerra per riconoscere pienamente tale ruolo a un'emittente che voglia dirsi pubblica, cioè finanziata dai cittadini. La BBC lo fa senza scandalo, in un paese che vive di libero mercato e di concorrenza, ma dove la TV di Stato non rinuncia a proporre contenuti formativi.

"An Education", film prodotto e voluto proprio dalla BBC, che nel 2010 ha sfiorato l'Oscar, oltre che una storia di formazione personale è un sincero ritratto generazionale di una nazione, raccontato con grazia e cultura e valorizzando il talento narrativo di uno dei maggiori scrittori inglesi contemporanei, Nick Hornby. "Billy Elliot", del 2000, rintraccia, insieme alla vicenda del protagonista, la poesia, la melanconia e la rabbia dell'Inghilterra mineraria degli anni della Thatcher, con un taglio ironico ma fondamentalmente pertinente. In questi pochi esempi risplende qualcosa della reverenza tipicamente britannica verso il passato, luogo asettico e proprio per questo intimo, familiare, con il quale intessere un rapporto sorprendentemente sano, di rispetto per le tradizioni ma anche di accostamento ai fatti e ricerca della verità. Mentre da noi la storia è spesso una clava ideologica da brandire contro gli altri.

3. Nelle democrazie occidentali le idee diventano opinioni, e le opinioni influenzano le decisioni di chi governa. La cultura ha il potere di influenzare la politica, più di quanto la seconda non interferisca nella prima. In Italia questo circuito funziona a rilento, anzi a stento. Vent'anni di predicazioni sbagliate e ideologiche ci inducono ad avere paura di qualsiasi cosa si richiami anche vagamente a un "servizio pubblico", quando invece se ne avrebbe un gran bisogno. Se la RAI eliminerà i suoi programmi migliori, finendo col proporre un modello pedissequamente a rimorchio delle reti commerciali, il suo ruolo sarà esaurito. E non sarà solo un gran peccato: sarà anche l'occasione per trarne le dovute conseguenze, e smettere di pagare il canone.