Dal 1° novembre 2014, Federica Mogherini (salvo sorprese dell’ultimo minuto), sarà l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la sicurezza. Si tratta sicuramente di un grosso successo diplomatico per l’Italia - o no?
1. La domanda viene spontanea per diverse ragioni. Prima di tutto, la candidatura del nostro ministro degli esteri era stata inizialmente avversata da una grossa fetta d’Europa, anche se alla fine Renzi l’ha spuntata. Ci si chiede però se questo lavoro diplomatico durato alcuni mesi, e l’energia profusa per portarlo a termine, fossero necessari. Detto altrimenti: non era forse più auspicabile che quelle stesse risorse venissero dedicate per sviluppare politiche più concrete per cercare di alleviare l’ormai cronica crisi economica? Va infatti notato che la scelta della Mogherini è molto probabilmente frutto di delicati equilibrismi politici interni all’UE che poco o nulla hanno a che fare con la politica estera: serviva un socialista e possibilmente donna visto che erano poche quelle scelte per altri incarichi. Inoltre, non è da escludere che la Cancelliera Merkel possa aver dato il suo avvallo alla scelta della Mogherini (inizialmente avversata) in cambio del rispetto della sua politica di austerity che invece l’Italia avrebbe interesse ad ammorbidire. Non va infine dimenticato che pare nell’interesse dei Paesi fondamentali per l’UE (Francia e Germania su tutti) che quella posizione rimanga di secondo piano. Ovvero non deve essere occupata da personalità ingombranti che possano in un modo o nell’altro intralciare le rispettive politiche estere.
E qui risiede il problema maggiore. Anche ammesso che la Mogherini possa esprimere una politica estera che soddisfi tutti i membri dell'Unione, quale politica estera può esprimere una entità soprannazionale priva di forze armate? La carica della Mogherini è infatti prevalentemente priva di sostanza (e dunque non così prestigiosa), basta guardare alla realtà della politica internazionale per rendersene immediatamente conto. Quando Putin cerca un interlocutore in Europa telefona a Berlino e non a Bruxelles; se Obama vuole individuare alleati nel Vecchio Continente chiama direttamente Londra; infine quando scoppiano crisi internazionali (Libia, Mali, Iraq e l’elenco potrebbe continuare), l’UE non si è mai presentata unita, ma si sono sempre fatti avanti, invece, i suoi membri in ordine sparso e guidati, come è logico che sia, dalle singole cancellerie e dai singoli interessi nazionali. Questo è un problema vecchio e noto, ma che conviene ribadire al fine di mettere nella giusta luce il peso della nomina. Inoltre, che la carica in sé non sia delle più prestigiose è testimoniato dalla sua stessa storia: è stata istituita nel 2007 ma solo nel 2011 ha avuto un proprio corpo diplomatico (Servizio Europeo per l’Assistenza Esterna, SEAE). In teoria avrebbe il compito di sviluppare e implementare la politica estera della UE, ma, come detto, questa è quasi inesistente, per cui risulta anche difficile capire cosa facciano le 140 delegazioni UE sparse nel mondo con tutti i costi connessi.
La mancanza di una politica estera europea è figlia, tra le altre cose, delle enormi disparità di culture politiche e storiche che separano i diversi membri dell’UE, che vanno dalle potenze nucleari (Francia e Gran Bretagna) ai paesi sostanzialmente neutrali come l'Irlanda, passando per i paesi quasi privi di esercito, quali il Lussemburgo. Senza poi contare l'enorme varietà di interessi nazionali e geostrategici, che vanno dalla centralità del Mediterraneo per l'Italia alle paure di paesi quali la Polonia e le repubbliche baltiche di esser di nuovo messe sotto schiaffo dalla Russia di Putin.
Constatata l’assenza di una vera politica estera comune, resta però il fatto che in questo momento la politica internazionale offre diverse sfide di cui curarsi, specie per l’Europa. Siccome le prime dichiarazioni della neo rappresentante sono del tutto prive di una qualche direzione (la sua unica dichiarazione in questo senso è stata che “serve una strategia di lungo periodo”), proviamo noi a dare uno sguardo allo scacchiere internazionale.
2. Partendo dall’est abbiamo, ovviamente, la crisi ucraina, che ormai si protrae da 10 mesi circa, e che al momento rischia di trasformarsi in guerra aperta. Il problema è che l’UE (a esclusione di Polonia e altri Paesi di recente ammissione dell’Est Europa) non ha alcun interesse a scatenare questa guerra e a ben guardare non ha neppure alcun interesse a prolungare o inasprire le sanzioni che già hanno causato non pochi problemi a diverse economie europee, tra cui quella tedesca (che infatti proprio quest’estate ha conosciuto una frenata) e quella italiana. Non bisogna poi dimenticare che queste economie dipendono in una buona misura dal gas russo, e non possono permettersi in alcun modo di perdere quei rifornimenti. In questo caso, dunque, servirebbe attuare una politica di dialogo con Putin che possa, da un lato, arginare una sua eccessiva spinta espansionistica, e dall’altro fargli capire la volontà dell’UE di mantenere buoni rapporti e di staccarsi in questo senso dal pugno duro che, invece, sembra voler mantenere Obama (il quale però ha ovviamente minori interessi geopolitici ed economici in gioco rispetto a noi europei). Il cessate il fuoco da poco raggiunto, e i risultati del summit della NATO in Galles, in effetti sembrano aver intrapreso la via più morbida.
3. Un secondo fronte fondamentale è, e sarà, il Mediterraneo. Sarebbe interessante che la proposta avanzata qualche settimana fa da Emma Bonino della creazione di un Commissario per il Mediterraneo venisse realizzata, perché il fronte sud è una vera polveriera e necessita indubbiamente di un approccio unitario alla regione. L’avanzata dell’ISIS tra Siria e Iraq è un problema di stabilità regionale (per di più di un’area fondamentale a causa delle sue risorse energetiche) che non può essere ignorato. L’appoggio accordato ai curdi con l’invio di aiuti umanitari e di armi è un primo passo ma non può essere l’unico. I peshmerga curdi non sono un esercito, combattono da anni una guerriglia difensiva per la loro indipendenza e sono esperti in quel genere di conflitto, ma non sono assolutamente in grado di affrontare l’ISIS in campo aperto o di portare a compimento vere operazioni offensive oltre i confini della loro piccola regione autonoma. Al contempo, l’esercito iracheno ha mostrato nell’offensiva di giugno tutte le sue debolezze e anche con l’appoggio aereo americano (per ora piuttosto limitato) non è in grado di rovesciare la situazione. Ma è a livello politico che questa contingenza deve essere analizzata, perché Assad e Iran, due storici nemici dell’Occidente, si trovano invece a condividere con quest’ultimo obiettivi immediati importanti e sul campo è già iniziata una sorta di collaborazione visto che “consiglieri militari” iraniani stanno aiutando le milizie sciite, che a loro volta sono appoggiate dai bombardamenti aerei americani. Dato anche il pericolo del jihadismo di ritorno verso l’Europa, sarebbe importante che quest’ultima riuscisse a intervenire, diventando da un lato un attore con cui dialogare a livello politico e dall’altro un alleato per le forze in campo.
4. Infine, c’è la situazione libica con il problema di Mare Nostrum. Finalmente sembra che l’UE riesca a sviluppare una politica comune che permetta, non certo di risolvere il problema migratorio, ma almeno di distribuirne i costi sui vari membri. La nuova strategia, Frontex Plus, che verrà implementata con l’autunno, prevede l’arretramento del pattugliamento (per cui gli scafisti dovranno navigare più a lungo per poter poi essere eventualmente soccorsi) e la distruzione dei natanti utilizzati; ciò dovrebbe sul medio-lungo periodo erodere le capacità di navigazione. Il problema però non risiede nella tematica della migrazione, che è una conseguenza, bensì in Libia, paese che ormai possiamo definire senza paura di esagerare un failed state, nel pieno di una guerra civile. Per di più, con l’intervento di altri paesi arabi come Egitto ed Emirati Arabi Uniti con bombardamenti aerei. Questa situazione è figlia dell’interventismo francese del 2011: sarebbe perciò auspicabile che l’UE sviluppasse delle strategie di intervento. La Libia non solo rappresenta un fronte fondamentale per i flussi migratori, che vanno assolutamente contingentati e fermati, ma è anche un partner energetico ed economico importante (per Italia e Francia in primis, ma nell’ottica di una minore dipendenza dalla Russia potrebbe esserlo per l’Europa nel suo insieme) e una ulteriore sponda per arrestare il jihadismo che sta insanguinando il Mediterraneo.
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