1. A forza di scosse e di strattoni, l’urna greca (quella elettorale, non quella lirica di Keats) ha dato i risultati sperati.

Non aveva accontentato l’Europa e la Germania a maggio, eleggendo un Parlamento ribelle, diviso, incapace di formare una maggioranza che sostenesse gli impegni finanziari presi con le altre nazioni; lo fa oggi, a distanza di un mese soltanto, consentendo a Nea Dimokratia e al debole, morente Pasok di costituire una flebile alleanza “europeista”.

2. Al di là del paradosso greco, di una democrazia cioè chiamata a ri-esprimersi nei medesimi modi e per la stessa consultazione nell’arco di trenta giorni – un paradosso che da italiani conosciamo bene, visto che per un infinito numero di casi nel nostro Paese si è ignorato patentemente il risultato referendario quando esso non si accordava con il volere di questo o quel partito – c’è un aspetto particolarmente frustrante nelle recenti dichiarazioni dei governanti europei. Barroso: “il progetto europeo è irreversibile”; Monti: “Europa conquista irreversibile”; Rajoy: “l’Euro? Un progetto irreversibile”; e così via.

Politici ed economisti si aggrappano a un vocabolario ottocentesco, fatto di necessità, di scatti autoritari, di un sottile, sbrigativo paternalismo, dove il movimento incessante della Storia deve avere la meglio su ogni possibile intoppo. Ma la verità è che nelle democrazie nessun processo dovrebbe mai essere irreversibile. Soprattutto, non c’è leader europeo capace di rispondere alla domanda più importante riguardante il destino del Continente: perché l’Europa, che cosa ci unisce, qual è, se esiste, il nostro cammino comune. Manca in modo assoluto quella che gli americani chiamano inspirational leadership, la capacità di parlare al cuore, regalando visioni e obiettivi.

3. Viceversa, i dirigenti europei si affannano a rimarcare come  e quando questo processo deve avere luogo, fissano scadenze e regole, indispettiti, quasi, che la realtà finanziaria, politica e sociale non stia dietro al senso impellente della necessità. Ma, come insegna George L. Mosse, la politica ha le sue ritualità e le sue peculiari esigenze, nel complesso rapporto tra capi e popolo. Chiede lo sforzo della persuasione, chiede un aspetto emotivo, che uomini storici tuttora fortemente discussi per il merito delle loro decisioni – uno su tutti, Ronald Reagan – avevano colto con sorprendente efficacia. Nel cuore della crisi petrolifera, poi energetica, poi inflazionistica e infine soprattutto “morale”, come l’aveva definita il suo predecessore, Reagan si rivolse al cittadino e lo chiamò a un riscatto prima di tutto individuale, umano e psicologico, lo mise in condizione di rompere il meccanismo delle scelte obbligate e di pensarsi come determinante per risolvere la crisi stessa.

4. Un’Europa stanca saluta con sollievo il risultato greco, che probabilmente ha per ora salvato la sorte della moneta unica, ma non le fa fare un solo passo in avanti. E la risposta scettica delle borse la dice lunga. L’assedio portato alle nostre residue sicurezze dalla crisi, dalla speculazione, dalle crescenti privazioni cui sono costrette le famiglie e le persone, è simbolico e al tempo stesso tremendamente reale. Mentre ai confini del nostro angolino di Occidente formazioni e partiti di stampo etnico e autoritario si fanno avanti con prepotenza (uno su tutti, il caso dell’Ungheria di Orban).

Ignorare tutto questo, o peggio, dismetterlo con un senso annoiato di superiorità, è stato un errore che in molti tra i liberali di ieri e di oggi hanno compiuto, rivelando a intervalli regolari una certa difficoltà a comprendere l’emergenza, i suoi aspetti di sofferenza e rabbia, capaci di scatenare reazioni impensate. Dalla celebre raffigurazione crociana dei fascisti come barbari invasori, hyksos del tempo presente calati sul mondo delle idee e della ragione per portare il disordine e la follia, alla drammatica sottovalutazione della destra reazionaria austriaca da parte delle élite liberali viennesi di primo Novecento, fino all’esempio classico dei repubblicani con la bombetta che non compresero la forza e la giustezza del discorso rooseveltiano, la Storia è piena di precedenti di rilievo che un po’ spaventano perché sembrano raccontare la cronaca di questi giorni.

Nel cuore del Continente capita che si mettano in discussione persino i fondamentali. “I malati terminali sono cari, costano fino a 200 mila euro all’anno, in tempo di crisi fino a quando potremo curarli?”, si è domandato pubblicamente il direttore generale della Usl 9 di Treviso. Ecco, di fronte a una prospettiva del genere, non c’è lucido discorso sugli sprechi della sanità, non c’è calcolo efficientista, non c’è ragionamento che tenga. Il malato, qualsiasi malato, chiede certezze, o almeno una speranza.

L’Europa è malata, e non sembra trovare un orizzonte per alcuna delle due.