Intervista di Francesca Silvia Rota con Marcello Natili, autore per il Laboratorio di Politica Comparata e Filosofia Pubblica del working paper “The Unexpected Institutionalization of Minimum Income in Spain” (Working Paper-LPF n. 2 • 2016).
FR - Sull’introduzione del reddito minimo in Italia, Agenda Liberale ha di recente pubblicato due contributi: il primo di Giorgio Arfaras, il secondo di Giuseppe Russo. In estrema sintesi, quali sono le principali differenze tra Italia e Spagna?
MN - I due casi storicamente presentavano molte similitudini: sul finire degli anni Ottanta, Italia e Spagna – insieme a Grecia e Portogallo – erano gli unici Paesi dell’Unione Europea privi di uno schema di reddito minimo. I sistemi di protezione nei confronti degli individui in condizione di povertà erano molto deboli e frammentati, mentre la famiglia e le associazioni del terzo settore, in special modo quelle vicino alla Chiesa cattolica, svolgevano un ruolo suppletivo fondamentale. Negli ultimi vent’anni, a partire da questa comune origine, i due paesi hanno avuto una traiettoria molto differente. In assenza di uno schema nazionale di reddito minimo, in Spagna le regioni hanno gradualmente assunto un ruolo fondamentale, e oggi possiamo dire che esiste una rete di sicurezza ultima in tutto il territorio spagnolo, pur in presenza di debolezze anche rilevanti. Al contrario, in Italia osserviamo a livello nazionale come a livello regionale una traiettoria schizofrenica: all’introduzione di misure innovative fanno seguito decisi passi indietro, interventi suppletivi parziali e marginali, senza che si sia mai arrivati all’introduzione di una riforma organica. Oggi non possiamo dire che esista né una misura nazionale né un sistema regionale, sebbene vengano sperimentate nuove misure a entrambi i livelli. Manca inoltre in Italia sia il coordinamento tra i vari livelli di governo, necessario ad evitare che si creino duplicazioni insieme a buchi di copertura, sia, soprattutto, un vero accordo trasversale sull’opportunità di introdurre uno schema di reddito minimo. In queste condizioni, il rischio più forte è che si continui ad agire per sperimentazioni destinate da essere facilmente eliminate dai governi successivi, oppure per via categoriale, coprendo cioè solo alcuni tra i gruppi sociali più a rischio.
FR - Dunque, in Spagna un ruolo chiave nell’introduzione di schemi di protezione per i più poveri è stato giocato dalle Comunità autonome (le nostre Regioni). Come si spiega questa scelta? Quali sono le condizioni che hanno permesso questo passaggio?
MN - Sul finire degli anni Ottanta una serie di attori sociali, a partire dei sindacati fino agli attori del terzo settore attivi nell’ambito del contrasto alla povertà – Caritas in primis – si sono fatti portavoce dell’introduzione di una misura non contributiva di sostegno al reddito. Il convinto sostegno sia del mondo dell’associazionismo di matrice cattolica, sia di tutti i Sindacati, è l’elemento fondamentale per comprendere l’introduzione di schemi regionali di reddito minimo nel caso spagnolo. Alcuni fattori specifici hanno poi fatto sì che fosse possibile l’introduzione di tali misure a livello regionale piuttosto che nazionale. In primo luogo, a livello regionale l’introduzione di schemi di reddito minimo non avrebbe comportato una redistribuzione delle risorse dalle Comunità Autonome economicamente più sviluppate del Paese a quelle dove la povertà era più diffusa. Come sappiamo, in Spagna esistono partiti e movimenti regionalisti - pensiamo ai Paesi Baschi o alla Catalogna - molto sensibili ai temi della redistribuzione territoriale delle risorse, che erano, invece, assolutamente favorevoli alla costruzione di misure di reddito minimo a livello regionale. Anche alcuni fattori di natura istituzionale, come la possibilità di introdurre vincoli di bilancio a livello regionale, e conseguentemente di avere maggior controllo delle risorse, hanno reso più semplice l’introduzione a livello regionale di queste misure. Insomma, a fronte di una forte spinta sociale verso l’introduzione di schemi di reddito minimo, una serie di fattori di natura politica e istituzionale hanno facilitato l’introduzione della misura a livello regionale piuttosto che nazionale.
FR - L’esistenza in una medesima nazione di più schemi di protezione sostanzialmente non coordinati tra loro e autonomi nell’individuazione delle soglie di povertà rappresenta una criticità?
MN - Sicuramente l’introduzione di misure regionali, in assenza di una legislazione nazionale che stabilisca, quantomeno, dei minimi garantiti sull’intero territorio nazionale, crea forti criticità, soprattutto nei Paesi come la Spagna, ma anche come l’Italia, in cui esistono forti differenziazioni tra aree economicamente più sviluppate e aree depresse. Il rischio è che proprio nei contesti territoriali in cui il bisogno è maggiore vi siano schemi meno solidi e generosi, anche se il caso spagnolo sembra indicare che siano soprattutto le scelte di natura politica a determinare i livelli di protezione e copertura garantiti dalle misure regionali. Ad esempio, regioni comparativamente molto ricche, come la Comunità di Madrid, hanno schemi meno generosi e inclusivi rispetto a Comunità economicamente meno sviluppate, come le Asturie. Ma è anche vero che vi sono aree geografiche in cui il bisogno è maggiore e l’intervento pubblico è invece molto meno protettivo.
Un’altra criticità che deriva dalla mancanza di una regia unica a livello nazionale riguarda le capacità ‘tecniche’ delle amministrazioni regionali. Gli schemi di reddito minimo sono misure complesse, che richiedono la capacità di stimare efficacemente il reddito dei richiedenti per determinare chi ha il diritto ad accedervi e chi no, e combinano sostegno economico con percorsi di integrazione sociale e lavorativa. Pianificare tali interventi a livello regionale richiede capacità di integrazione tra i vari livelli di governo e abilità nell’ideare e realizzare interventi sociali, e non sempre a livello locale si possiedono le competenze amministrative per procedere efficacemente. Il caso spagnolo mostra come non tutte le Regioni siano state in grado di effettuare investimenti adeguati nell’infrastruttura organizzativa, e lascia supporre che una cabina di regia nazionale sarebbe stata di grande aiuto ai legislatori regionali, eliminando tra l’altro costi di progettazione e di integrazione tra le varie istituzioni.
D’altronde, la mia opinione è che in Spagna, in assenza delle misure regionali, non saremmo in presenza di uno schema nazionale, ma di un modello ancora più debole, simile a quello italiano. Il vantaggio di avere schemi regionali non è dipeso infatti da una maggiore capacità di adattamento delle misure alle diverse realtà territoriali, quanto piuttosto dall’aver favorito il superamento di alcune barriere, che esistevano ed esistono rispetto all’introduzione a livello nazionale.
FR - Nel ragionare sui rischi e le opportunità del reddito minimo, Arfaras evidenzia quali altre giustificazioni, oltre a quella dell’equità, sostengano un intervento politico in questa direzione (“vita tranquilla” e “tranquillità politica”). Russo, invece, analizza i pro e i contro di un ipotetico passaggio alla tassazione negativa sui redditi. Qual è la sua opinione a riguardo?
MN - Vi sono molte ragioni a supporto dell’introduzione di uno schema di reddito minimo: da ragioni normative di giustizia sociale a ragioni più pragmatiche, come quelle cui fa riferimento Arfaras, di garanzia della coesione se non di vero e proprio controllo sociale. È inoltre indubbio che la garanzia di un reddito minimo consentirebbe a molti giovani e a molte famiglie di sfuggire al ricatto della criminalità o ai rischi del lavoro in nero. A me piace anche ricordare che, a fianco di ragioni di equità, esistono motivazioni di natura economica che possono spingere verso questo tipo d’interventi. Una di queste consiste nel fatto che la povertà in Italia è diffusa soprattutto tra le famiglie numerose, ove sono presenti più minori. Crescere in condizioni di svantaggio economico, spesso in situazioni di deprivazione materiale, ha conseguenze molto negative e di lungo termine sulla capacità di costruire un percorso individuale e professionale di successo. Diverse ricerche dimostrano che crescere in contesti disagiati disincentivi l’investimento sulle proprie competenze e sulla propria istruzione, creando veri e propri circoli viziosi della povertà. Uno schema di reddito minimo costituirebbe uno spostamento delle risorse pubbliche a favore di queste famiglie, e dunque un investimento su questi bambini. In particolare, gli schemi di reddito minimo d’inserimento introdotti negli altri paesi europei – ma anche, sempre di più, in America Latina – mirano a garantire percorsi di scolarizzazione e un adeguato investimento sulle competenze dei minori presenti nei nuclei familiari che ricevono tali prestazioni, e costituiscono, dunque, un investimento per il futuro, una modalità attraverso cui evitare che la povertà attuale si cronicizzi, diventando la povertà di domani. Questo, oltre ad essere profondamente ingiusto, produrrebbe costi aggiuntivi per lo stato sociale di domani, che un intervento preventivo consentirebbe di evitare.
Marcello Natili è dottore di ricerca in Political Studies (2016). Attualmente è assegnista post-doc presso il Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università di Milano. I suoi interessi di ricerca si focalizzano sull’analisi comparativa dei modelli di welfare, con attenzione specifica al tema dell’inclusione sociale, delle politiche conto la povertà e del reddito minimo.
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