Non c’è modo migliore di vincere un confronto che definire i termini del contendere. Da questo punto di vista non c’è dubbio che ad aver vinto il dibattito sul (cosiddetto) Jobs Act sia stata la sinistra conservatrice. I termini stessi del dibattito - “precariato”, “tutele”, “diritti acquisiti” - sono profondamente viziati da un pregiudizio ideologico che mette il lavoro a tempo indeterminato al di sopra del lavoro a tempo determinato. Chiunque usi questi termini giunge inevitabilmente alla stessa conclusione, anche se propone qualcosa di diverso.
1. Iniziamo dunque da questa differenza fondante. Che cosa distingue il lavoro a tempo determinato dal lavoro a tempo indeterminato? La possibilità di licenziare, verrebbe da dire, seguendo i termini del dibattito avuto sul Jobs Act. Nel primo caso il datore di lavoro può interrompere il rapporto di lavoro, nel secondo non lo può fare. Mettendoci nei panni del lavoratore, la seconda forma di contratto è migliore, perché garantisce maggiori tutele. Difende i “diritti acquisiti” dai lavoratori in ragione delle “lotte sindacali”. Tutto vero. Ma rovesciamo la prospettiva, che non significa prendere automaticamente la posizione del datore di lavoro. Questo è un trucco discorsivo dovuto alla calibrazione ideologica dei termini del dibattito. La prospettiva opposta è quella dell’innovazione.
Il termine “innovazione” è stato anch’esso cooptato dal discorso conservatrice di chi difende lo status quo. Si dice che in Italia non c’è crescita perché gli imprenditori non investono in innovazione. Lo facessero, si creerebbe più lavoro, e quindi si impiegherebbero più persone rendendo il licenziamento inutile. Questa prospettiva, senz’altro corretta da un certo punto di vista, di nuovo soffre di un vizio ideologico. Quello dell’impiego sicuro come prodotto dell’impresa: in Italia solo l’impresa che produce posti di lavoro a tempo indeterminato è socialmente utile. Se no è puro sfruttamento dei lavoratori.
2. Partiamo da quest’ultimo dato per smontare (o problematizzare) l’intero castello argomentativo. La Costituzione vuole che la repubblica sia fondata sul lavoro, che alcuni vogliono essere il posto di lavoro. L’idea vichiana che governa questo principio - il verum factum, ossia come l’umano può solo conoscere ciò che l’umano produce - non distingue fra lavoro a tempo determinato e indeterminato. Parla di lavoro. E che cos’è oggi il lavoro? Ecco un termine della vicenda che la sinistra conservatrice non vuole affrontare. Se questo termine divenisse l’oggetto del contendere, cadrebbe l’intero castello argomentativo che ha eretto per difendere lo status quo.
Oggi il termine “lavoro” è definito proprio dal termine “innovazione” propriamente inteso. Se il progresso tecnologico alla base della rivoluzione industriale era ancora essenzialmente additivo (ossia se per progredire la società ammassava innovazioni, così che ci si muovesse come sulle spalle di un gigante), con la rivoluzione digitale il progresso tecnologico ha preso una piega esponenziale. Ogni progresso è il quadrato del precedente passo in avanti, che a sua volta era il quadrato del progresso precedente. Oggi un qualsiasi televisore possiede più potenza di calcolo dell’intera sala di controllo che portò l’umanità sulla luna neanche mezzo secolo fa. E fra cinque anni forse non ci saranno più televisori, almeno come li conosciamo ora. Basta guardare a che cosa è successo in vent’anni alle memorie dei computer: chi usa oggi un floppy disk? Eppure nel 1984, il primo computer Apple funzionava perfettamente con un solo floppy disk. In una simile situazione, che senso ha parlare di lavoro a tempo indeterminato? Vogliamo che i floppy disk vengano prodotti in perpetuità per garantire i posti di lavoro di chi li produce anche quando ormai tutti usiamo on line memorie remote? Perché è questo che si fa con la Cassa integrazione guadagni (Cig). Si mantengono in piedi aziende decotte per non perdere i posti di lavoro. Ovvero, in Italia, l’industria non produce merci, ma produce merci per dare posti di lavoro. Un’opera pia (ma non dimentichiamo mai che i posti di lavoro, nei sistemi corrotti, sono voti dati alla macchina politica). Ma un’opera che con il lavoro ha poco a che vedere.
Occorre quindi rovesciare i termini del discorso e dire che tutti i posti di lavoro debbano divenire “precari” per seguire la logica di mercato? Niente affatto. Questa è la trappola insita nell’usare termini manomessi dal vizio ideologico. La “precarietà”, a rigor di logica, non potrà mai divenire un termine positivo in un dibattito sul lavoro. È per questo che gli oppositori della sinistra radicale preferiscono usare il termine “flessibilità”. Ma neanche questo termine è scevro di vizio ideologico. Per flettersi un’asta deve comunque essere fissata alla radice. Il lavoratore dovrà adattarsi a cambiare lavoro dimostrandosi flessibile. Non tutti i lavoratori possono farlo. E infatti, per discutere correttamente di lavoro, occorre prima distinguere bene fra i diversi ambiti in cui il lavoro avviene. E qui il discorso della sinistra conservatrice cessa di funzionare perché si tocca una questione che non osano mettere sul tavolo: il lavoro è legato al talento, e il talento va premiato da una società sana in tutti i modi e a tutti i costi. Non esiste l’eguaglianza fra lavoratori come non esiste un solo modello di lavoro. Questo in Italia è un tabù.
È l’essenza stessa del compromesso democristiano fra popolari e social-comunisti che ha portato al livellamento del lavoro e a l’equiparazione dei lavoratori. Ancor oggi la differenza fra un lavoratore medio e un dirigente è poca cosa. E infatti fa scandalo che l’alta dirigenza venga pagata con stipendi internazionali dovuti alla globalizzazione. Anche ammettendo che certi compensi abbiano raggiunto oggi un tetto che li pone al di là della decenza, com’è senz'altro il caso di molti compensi dell’alta dirigenza, rimane il fatto che in Italia il talento non porti automaticamente ad un maggior guadagno. Anzi, vige la logica contraria. Chi parte prima guadagna di più in ragione di criteri d’anzianità. Questa è la regola delle regole nel mondo prodotto dal compromesso democristiano. Chi davvero vale, oggi va all’estero anche per questo motivo.
2. Per riportare i termini del dibattito ad una ragionevolezza fondata sul contesto storico in cui ci troviamo dovremmo innanzitutto ammettere che chi è più agile mentalmente, chi ha più talento, chi è più bravo, merita di guadagnare di più, molto di più di chi si accontenta di un posto fisso statale. Invece oggi avviene esattamente il contrario. Il “precario” nella maggioranza dei casi guadagna di meno, in termini assoluti molto di meno di uno statale coperto dai “diritti acquisiti” sanciti dallo Statuto dei lavoratori del 1970. Documento dal valore para-costituzionale per i conservatori di sinistra. Nel loro racconto delle cose, è la malvagità della finanza internazionale, e non lo stato di avanzamento della conoscenza, che condanna il lavoratore alla “precarietà”. Se non vi fosse quest’intervento del maligno, tutti i lavoratori vivrebbero nell’eden dello Statuto (eden peraltro mai esistito, visto che negli anni settanta in Italia si sparava per le strade).
Ma come abbiamo visto è lo stato stesso del progresso tecnologico che spinge l’innovazione a rompere la continuità delle linee di produzione. Ma è giusto accompagnare questa spinta, così com’è? Ovviamente no, com’è facilmente intuibile. È stato calcolato che se oggi si seguisse la pura potenza di calcolo delle nuove macchine, la metà dei lavori attuali sparirebbe: dal lavoro dei notai a quello dei postini, da quello dei professori universitari a quello dei lavoratori dell’industria. Solo i mestieri che si fondano sulla gestione istantanea dell’inatteso sopravviverebbero (e secondo alcuni solo sino alla Singolarità, ossia alla nascita di una intelligenza artificiale).
Il mondo costruito da queste macchine non solo sarebbe una distopia realizzata, ma non si reggerebbe in piedi a lungo. A meno che non si prenda atto di questa anomalia e la si trasformi in opportunità. È a questo che serve il lavoro oggi: spostare la creatività umana su ciò che ci rende umani, abbandonando la posizione di macchina biologica verso cui ci hanno spinto ideologie come il capitalismo e la sua immagine distorta, il socialismo. Diceva Adorno che il problema di Marx era di aver portato ogni essere umano in fabbrica, e di aver usato la fabbrica come il modello di ogni relazione umana. Oggi, chi parla di “precariato” vuole mantenerci tutti nell’ufficio postale che è diventato l’impiego in Italia. Un luogo in cui tutto è dovuto (ovvero dall’utente all’impiegato preposto), e in cui ogni lavoro somministrato potrebbe essere più agevolmente eseguito da una macchina che da un essere umano.
3. È proprio da questa fabbrica novecentesca che dobbiamo uscire, ed è per questo che nel pensare il lavoro dovremmo mettere da parte il vocabolario stesso del conservatorismo di sinistra che concepisce l'umano come il surrogato del machinico. Occorrerebbe dunque produrre nuovo linguaggio, evitando anche termini come “merito” che sono stati così profondamente manipolati da essere oggi privi di significato. Oggi “premiare il merito” suona come un ammonimento a chi si dà delle arie, più che una incitazione a rompere gli schemi.
Si garantisca quindi ogni tutela a chi si accontenta di un posto fisso per tutta la vita. O a chi sente la vocazione per quei lavori stabili come l’insegnamento o la cura dei malati. O a chi non è in grado di badare a se stesso. Ma si trovi il modo di stimolare e premiare chi vuole di più dalla vita. Chi vuole spingersi verso nuovi orizzonti.
Quella che va rotta è la condanna democristiana al posto fisso come forma ideale del lavoro machinico che ancora ci lega come ad un ceppo. Come fossimo degli Ariel imprigionati nel tronco in attesa che un Prospero ci liberi. Essere di sinistra non è farsi umile per meglio curarsi dei poveri. È credere nella perfettibilità della condizione umana. Si abbia quindi il coraggio di cambiare. Che in molti casi significa premiare chi cambia lavoro. Chi produce ricchezza. Chi genera innovazione. Per far questo, una sinistra che voglia tornare a essere progressista deve poter cambiare discorso. Che significa innanzitutto cambiare i termini del discorso. Per osare di più e andare incontro al futuro, invece di voler tornare, ad ogni piè sospinto, all'improbabile paradiso perduto degli anni Settanta.
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