Dal 2014 il Politecnico di Milano terrà tutte le lezioni dei corsi di laurea magistrale in inglese. Questa scelta ha ovviamente animato un serrato dibattito, dalle aule universitarie anche rimbalzato sulle pagine dei quotidiani.

Approfondisce il tema per Agenda liberale Anthony Marasco, italoamericano, partecipante al programma ministeriale “Rientro dei cervelli” e oggi presidente dell’Associazione per l’insegnamento universitario secondo il sistema didattico americano (ente non profit riconosciuto dalla Regione Piemonte).

1. L’annuncio diffuso dal Politecnico di Milano ha suscitato un certo scalpore e non solo negli ambienti accademici.

A plaudire questa e simili iniziative sono in genere i fautori dell’internazionalizzazione, ossia coloro che ritengono necessario aprire le nostre Università al mondo. Nella società della conoscenza, è il sapere che produce ricchezza. Se un tempo bastava mettere mano al sapere depositato nei forzieri aziendali per far fruttare il capitale d’impresa (le segrete ricette, i metodi tramandati, la rendita di posizione), oggi occorre saper lavorare direttamente sulla conoscenza per produrre ricchezza. E per poter agire direttamente sul sapere occorre essere un nodo nella rete globale della ricerca. Una volta preso atto che l’inglese è diventata la lingua franca della ricerca mondiale, l’uso di questa lingua aprirà il sistema italiano al mondo.

Ai fautori dell’internazionalizzazione, fra i quali spicca l’attuale ministro Francesco Profumo, si oppone chi vede nell’uso della lingua inglese un esempio dell’endemico provincialismo italiano. Abbandonare la lingua madre nell’alta formazione non apre al mondo ma riduce l’efficacia formativa. Apprendere in una lingua diversa dalla propria riduce e non aumenta le capacità di apprendimento. Insegnare in una lingua straniera riduce, invece di aumentare, la capacità di insegnare in modo sofisticato materie complesse.

Quindi seguendo la chimera dell’internazionalizzazione si genera inutile sforzo negli studenti e si diminuisce l’efficacia formativa di chi insegna. Tanto vale mandare i migliori studenti e i migliori docenti all’estero per periodi più o meno lunghi e insegnare alla grande maggioranza degli studenti in italiano piuttosto che condannarli all’appiattimento cognitivo derivante da un uso distorto della lingua inglese.

2. Fino ad oggi è accaduto proprio questo. Chi ha ambizioni di ricerca va inevitabilmente all’estero. Chi si oppone all’internazionalizzazione vorrebbe aprire corridoi per il rientro di chi in prima battuta è andato all’estero per favorirne il rientro. Solo così l’Università italiana si aprirà al mondo.

Questa strategia (implementata prima dal programma “Rientro dei cervelli” e poi dal programma intitolato a Rita Levi Montalcini) ha pregi innegabili, ma non aiuta a portare in Italia studenti stranieri. Per quanto l’italiano sia ancora una lingua molto studiata all’estero, chi studia materie scientifiche non studia in genere l’italiano. Se l’obiettivo è quello di attrarre studenti stranieri, i corsi in inglese sono davvero l’unica strada percorribile. 

Come giudicare allora iniziative come quelle annunciate del Politecnico di Milano? Con moderato scetticismo, ma non per i motivi sin qui detti.

3. Il motivo per cui l’inglese si è imposto come lingua della ricerca scientifica non va cercato nella singolare duttilità di questa lingua (che importa senza mutarli vocaboli dalle lingue più disparate e volendo è predicabile su di una grammatica elementare). Se l’inglese si è imposto è dovuto all’egemonia culturale degli Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Durante la Guerra Fredda il governo federale investì risorse ingenti nelle Università portando gli atenei americani ai vertici della ricerca. è dunque per questo che oggi nel mondo si parla inglese, non per via del prestigio di cui godono club aristocratici quali Oxford e Cambridge. Ma sarebbe un errore grossolano ritenere che l’inglese si sia imposto nel mondo sulla scorta della sola egemonia culturale degli Stati Uniti. Se l’inglese è diventata la lingua franca della ricerca è anche e soprattutto perché nelle Università americane i metodi di ricerca di origine europea sono stati democratizzati.

Se oggi si parla di “comunità scientifica” lo si deve alla teoria americana (Charles Sanders Peirce, John Dewey, Thomas Kuhn). L’enfasi è sul concetto di “comunità”, dove ogni scoperta è ritenuta valida solo dopo il consenso della maggioranza degli scienziati che si occupano dell’ambito di ricerca in cui cade quella scoperta. è per questo che oggi la conoscenza non sta più nei forzieri, ma circola in rete.

Per aprire l’Università italiana al mondo non basterà quindi parlare inglese. Questo sì è provinciale. Quello che attrarrà studenti stranieri in Italia sarà l’uso del metodo didattico che ha portato la lingua inglese ai vertici della ricerca.

Il metodo formativo in uso nelle migliori Università americane si fonda su di un metodo didattico il cui scopo precipuo è la formazione dei giovani membri della “comunità scientifica”. è per questo che il rapporto fra docente e studente è strutturato perché possa divenire presto un rapporto fra pari. Chi apprende conosce meno di chi insegna, ma non per questo dovrà essere posto al cospetto di un docente dotato di prerogative regali.

Il problema dell’Università italiana non è tanto l’uso della lingua italiana, ma il perdurare di un approccio didattico non adatto alla formazione di giovani scienziati. Adottare l’inglese non sortirà dunque l’effetto sperato a meno che all’uso della lingua non corrisponda l’adozione del metodo didattico che ha portato all’egemonia di quello stesso idioma nella formazione e nella ricerca, ossia il metodo didattico adottato dalle Università di ricerca americane.

In Italia l’insegnamento, soprattutto quello umanistico, ma anche quello scientifico e tecnico, è ancora fondamentalmente cattedratico. Basta entrare in una qualsiasi Università per vedere aule più o meno gremite dove un docente parla e gli studenti prendono appunti. Raramente i professori accettano domande, soprattutto nei corsi dove le aule sono gremite. L’unico momento in cui le parti si invertono è durante l’esame orale, in cui lo studente cerca di ripetere, il più accuratamente possibile, quanto ha detto il docente a lezione. Più esatta sarà la riproduzione del modello, maggiore sarà il voto.

Negli Stati Uniti l’insegnamento è cattedratico ma solo per una certa componente. Se la classe è poco numerosa, il docente instaura subito un rapporto dialogico con gli studenti, i quali preparano interventi in classe come parte dell’esame, fanno domande e in tutti i modi possibili partecipano alla lezione. Se i numeri non lo consentono, la classe viene suddivisa in gruppi e ad ogni gruppo è affidato un dottorando il quale fa discutere gli studenti in modo che anche loro possano partecipare attivamente al processo di formazione. 

è la tendenza a porre lo studente in una posizione passiva il vero problema dell’Università italiana, non l’uso dell’italiano in sé. Passare all’inglese non risolverà questo problema, ma lo renderà ancora più acuto perché non tutti i docenti possiedono strumenti linguistici adeguati in lingua e le lezioni ex cathedra rischieranno di diventare ancora più aride e infruttuose.

Se dunque l’obiettivo che i Politecnici si prefiggono è quello di attrarre e trattenere i migliori studenti a prescindere dalla lingua madre, allora insieme all’uso veicolare dell’inglese dovranno anche approntare un radicale ripensamento della didattica. Senza di esso il rischio è di repellere invece di attrarre, non solo gli studenti che non conoscono l’italiano, ma gli studenti italiani che vogliono rendere al meglio. 

4. La situazione nei Politecnici italiani è molto meno negativa di quanto non la si dipinga parlando per stereotipi. La stragrande maggioranza dei docenti che insegnano materie scientifiche e tecniche hanno già avuto amplissime esperienze di internazionalizzazione. Basterebbe poco per ridisegnare su queste esperienze il rapporto fra docenti e studenti in modo che l’apprendimento possa davvero giovarsi della conoscenza che circola in rete fra i maggiori centri di ricerca del pianeta.

L’alternativa è quella di chiudersi in spazi circoscritti proprio quando la produzione del sapere si apre al mondo. Non ce lo possiamo permettere e sarebbe imperdonabile non ottimizzare quello che già di buono è stato fatto in questi anni.