Quando in politica si incontrano difficoltà impreviste, difficili da giustificare, oppure si vuole muovere una critica ma senza troppo esporsi, si dichiara - con l’aria di chi la sa lunga - che il personaggio in questione “non ha saputo comunicare”. E’ successo in passato a tanti leader di sinistra, fino a Pierluigi Bersani; è capitato ancora di recente a Mario Monti; è toccato persino a Papa Benedetto XVI, quando il Vaticano sembrava sul punto di essere travolto da gravi scandali. Ora, incredibile a dirsi, pare essere la volta di Beppe Grillo e del suo Movimento 5 Stelle, che pure è stato inventato da un’agenzia che di comunicazione dovrebbe intendersi.
1. Al primo parziale insuccesso, giunto inaspettato, il leader e i suoi sostenitori si interrogano. Alcuni se la prendono con le mance elettorali di Matteo Renzi, altri mettono sotto accusa “gli anziani” (colpevoli di non pensare al futuro dei nipoti) altri ancora attaccano i giornalisti, che presentano il movimento in cattiva luce. Qualcuno si spinge a dire che i toni, le invettive, il turpiloquio, le iperboli stravaganti hanno spaventato l’elettorato. “Non abbiamo saputo comunicare”, appunto.
Queste e altre considerazioni di segno analogo restano tutte, come si diceva una volta, al di sotto dell’analisi. Non tengono cioè conto di alcuni aspetti reali e sostanziali della politica, anche nella sua declinazione simbolica e comunicativa, spiegati assai bene da Mario Rodriguez nel suo pamphlet ConSenso. La comunicazione politica tra strumenti e significati (Guerini & Associati).
Contrariamente a un abusato luogo comune, non è vero che “il mezzo è il messaggio” (ieri la Tv, oggi la Rete). La comunicazione politica deve essere finalizzata innanzitutto alla “costruzione di senso” e impostata sulla “centralità del ricevente”. Nei processi di convincimento è prevalente la vita reale degli individui, occorre perciò attribuire senso ai messaggi e saggezza alle persone. Rodriguez cita Panebianco e il suo saggio sul rapporto fra azioni individuali e imprese collettive: i macro fenomeni sono il risultato di milioni di micro decisioni e scelte, che i singoli individui compiono ogni giorno, per lo più liberamente, in modo pienamente legittimo e ragionevole.
Nulla di più lontano, in questa impostazione liberale, dalla vulgata di una certa sinistra tradizionale italiana, che è solita imputare i propri insuccessi a una presunta “mutazione antropologica” e valoriale dell’elettorato, conseguente al diffondersi in Italia delle Tv commerciali, che avrebbero subliminalmente “predisposto” il cervello dei cittadini a ricevere i messaggi ingannevoli e artefatti del monopolista di Arcore.
Un’interpretazione, quest’ultima, respinta senza appello anche da un altro osservatore assai critico del berlusconismo, Piero Ignazi, che nel suo recente saggio Vent’anni dopo (Il Mulino) analizza lucidamente la parabola dell’imprenditore sceso in campo nel ’94. Ignazi non condivide neppure la tesi recentemente avanzata dallo storico Giovanni Orsina sull’Italia “ipopolitica” avvinta dall’arretratezza e da un disinteresse piccino e “gretto”.
Una lettura suggestiva, storicamente fondata, ma che mal si attaglia al fenomeno berlusconiano. “Berlusconi è rivoluzionario, non passatista” osserva Ignazi. Sfonda perché raccoglie le domande di una società civile in fermento sia sul piano economico-sociale che su quello politico. All’inizio il Cavaliere è il calco perfetto di quel mondo vitale e operoso, insofferente di lacci e lacciuoli di ogni tipo, in cui l’individualità sfonda gli argini delle costrizioni collettive. Il suo, inizialmente, è un progetto di cambiamento e di modernizzazione: “Berlusconi è riuscito a imporre una visione dinamica del futuro a una costituency moderata-conservatrice e a indicare grandi obiettivi mobilitanti”. Ignazi individua le cause del declino di Berlusconi nella scelta deliberata di non costruire un partito conservatore di massa, nell’aver completamente disatteso la rivoluzione liberale inizialmente promessa, soprattutto nella mancata modernizzazione dell’economia, che è arretrata in tutti i settori, con conseguente impoverimento di quel ceto medio che è stato l’ampia base di consenso del centro-destra. Silvio Berlusconi ha così completamente perso, nell’arco di vent’anni, tutte le sfide lanciate al momento del suo ingresso in politica.
2. Tornando a Rodriguez, questi osserva che molteplici cause hanno sin qui impedito la formazione di un “paradigma condiviso” sulle ragioni dei successi elettorali di Berlusconi. La manipolazione del consenso non c’entra. Scegliere un prodotto è la caratteristica distintiva della società nella seconda metà del Novecento, e questo vale anche per quel particolare prodotto definito “il mercato dell’attenzione”. Scegliere è sinonimo di libertà, la scelta individuale è “il cuore del capitalismo e della democrazia” scrive l’esperto di comunicazione che in passato è stato a lungo, fra le altre cose, collaboratore de L’Unità. Di conseguenza, la pubblicità è parte inscindibile della vita quotidiana, al punto da diventare una delle forme artistiche caratterizzanti la nostra epoca. Paragonare la competizione elettorale a un “mercato”, migliora le capacità di comprenderne le logiche e gli esiti. Invece, quale frutto avvelenato del conflitto di interessi berlusconiano, gli spot elettorali in Italia sono stati vietati, con conseguente perdita, da parte della politica, della capacità di misurarsi con una delle più tipiche modalità espressive del nostro tempo. Occorre che la comunicazione politica sia consapevole della “piena soggettività” dell’individuo - di volta in volta consumatore, spettatore, elettore ma sempre protagonista, attivo e non passivo, del mercato economico, televisivo, politico.
Viceversa, esaminando le reazioni del Movimento 5 Stelle all’insuccesso elettorale, molti vistosi errori di impostazione balzano agli occhi. Alla base del risultato deludente di quel partito sta un clamoroso fraintendimento sulle caratteristiche di fondo della società italiana e sulle sue aspettative. Per meglio comprendere questo limite è bene studiare, più che le performances di Beppe Grillo, le caratteristiche e visioni dell’altro principale ideologo del movimento: Gianroberto Casaleggio.
Di costui sappiamo che non è una persona particolarmente colta (ha abbandonato gli studi a 21 anni, quando militava nella sinistra extraparlamentare), che è appassionato di fantascienza, che in precedenza ha curato la comunicazione politica per l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Anche a non voler prendere in considerazione le stravaganti teorie new age contenute nel celebre video “Gaia” (definite dallo stesso Casaleggio “un gioco”), resta il fatto che intendere la Rete come una nuova forma salvifica di democrazia diretta, destinata a soppiantare rapidamente la screditata democrazia rappresentativa, costituisce un mito falso e assurdo. Un clamoroso errore di percezione, dovuto - nella migliore delle ipotesi - a una completa deformazione professionale. Casaleggio ha dichiarato, in tempi recenti, di auspicare “una rivoluzione francese ma senza ghigliottina”, di volere “la fantasia al potere”, di ambire al “100% dell’elettorato”, di apprezzare Rousseau e il suo mito del buon selvaggio (“stavano meglio gli irochesi e i boscimani” ha tradotto Beppe Grillo), di puntare alla decrescita felice teorizzata da Serge Latouche.
Con queste premesse, non stupisce affatto che due personaggi come Grillo e Casaleggio abbiano dato vita a un movimento di tipo leninista, fortemente settario, con una gestione ultra-verticistica costellata da continue espulsioni. Privo di una solida cultura politica e di riconoscibili riferimenti ideali, il movimento che si proclama semplicisticamente “post-ideologico” ha finito con il rappresentare anch’esso un tentativo di “egemonia sottoculturale” (l’espressione è di Massimiliano Panarari) dopo il tramonto dell’egemonia culturale della sinistra gramsciana del Novecento.
In questo senso, è rivelatore l’invito rivolto da Casaleggio (figlio del ’68, di Baudrillard, del già citato Latouche) alla folla del comizio finale, di scandire in coro il nome di Berlinguer. Si è trattato di un’evidente appropriazione indebita, del tentativo maldestro di millantare nobili origini culturali e ideali, per un movimento che non ne possiede alcuna (oltretutto richiamando una personalità scomparsa trent’anni fa, certo rispettata, ma che ha sempre mantenuto con la modernità e con il liberalismo un rapporto difficile e conflittuale).
3. Il Movimento 5 Stelle, che ha intuito per tempo la delegittimazione del sistema politico e l’obsolescenza dei partiti, ha puntato apertamente a una radicalizzazione dello scontro politico. Ma Grillo e Casaleggio dimostrano di avere frainteso la condizione anche psicologica della società italiana, che è sì impoverita dalla crisi e molto preoccupata per il futuro, ma che proprio per questo auspica riforme economiche e stabilità politica, non certo la distruzione dell’Unione europea, il crollo dell’economia occidentale e l’avvento di una non meglio precisata arcadia frugale.
La battuta d’arresto del Movimento 5 Stelle rappresenta la più netta smentita delle teorie di un visionario inconsistente, mentre studiosi come Ignazi e Rodriguez, con i loro scritti, aiutano la cultura italiana ad approfondire le ragioni dei fenomeni politici, lontano da luoghi comuni e semplificazioni di comodo.
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