Cominciamo dalla fine. Le elezioni del prossimo 24-25 febbraio, che solo due mesi fa sembravano vinte “a tavolino” dal Pd, riservano molto probabilmente grandi sorprese. L’esito è altamente incerto, tanto dal punto di vista del consenso elettorale in senso proprio, quanto se si considera ciò che ne potrà conseguire in termini politico-istituzionali, ossia di formazione di una maggioranza e di un governo.

L’incertezza diffusa ha cause molteplici, legate in parte al contesto, in parte a ciò che si ricava dalla lettura dei sondaggi, in parte ai meccanismi attraverso i quali la legge elettorale trasforma i voti in seggi, in parte infine ai contenuti della campagna elettorale che abbiamo visto dipanarsi fin qui.

1. Partiamo dal contesto. I dati congiunturali confermano una situazione pesante, con l’attività economica che si contrae, la disoccupazione in crescita e i segnali di disagio sociale che si acutizzano. Influiranno sul voto le numerose inchieste giudiziarie che coinvolgono esponenti di primo e secondo piano della classe politica un po’ dappertutto in Italia, nonché svariati amministratori di grandi società industriali e finanziarie. Sulla scorta delle classifiche pubblicate da Mediobanca nell’ottobre 2012, risultano al momento sotto inchiesta da parte della magistratura e/o delle autorità di sorveglianza e controllo i vertici della prima (Eni), sesta (Finmeccanica) e undicesima (Gruppo Riva) società industriali e dei servizi; della seconda società assicurativa (Fonsai); e della terza banca (Monte dei Paschi).

Anche le recenti dimissioni del Papa Benedetto XVI possono contribuire, in questo clima, a una generale diffusa sensazione di perdita di direzione e di orientamento, per lo meno fra gli elettori cattolici. Né si può dimenticare la beffarda e fulminante declinazione che ne offre Beppe Grillo, quando urla che “Perfino il Papa si è dimesso, ma loro no!”: come se ci fosse un qualche ragionevole nesso fra le dimissioni del Papa e quelle – mancate – della “casta”.

2. Veniamo ai sondaggi. Gli ultimi disponibili (la legge ne vieta la pubblicazione nelle due settimane precedenti le elezioni) risalgono al 6-7 febbraio, ossia a oltre due settimane prima del voto. Il dato più rilevante è la persistenza a quel momento di un terzo circa (30-33 per cento) di elettori indecisi o astenuti. La percentuale è in calo rispetto al 45-50 di qualche mese fa, ma si tratta pur sempre di un numero rilevante, tanto più se letto accanto a quello (circa un quinto, secondo alcune stime) di coloro che dichiarano che, pur avendo scelto, potrebbero ancora cambiare idea. Notoriamente, gli indecisi non distribuiscono le loro preferenze proporzionalmente rispetto ai “decisi”; e per di più è proprio negli ultimi giorni – quelli su cui in Italia non si possono avere informazioni – che la bilancia finisce col pendere a favore dell’una o dell’altra parte in lizza.

Comunque, e per quel che possono valere, a 17-18 giorni dal voto i sondaggi registravano a livello nazionale il vantaggio della coalizione di centrosinistra su quella di centrodestra (molto ridotto rispetto agli 8-10 punti dei primi di gennaio, e pari a 4-6 punti, con il centrosinistra intorno al 33-34 e il centrodestra intorno al 29 per cento); la lista Monti fra il 10 e il 15, ma in lieve contrazione; Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia poco sopra o poco sotto la soglia di sbarramento del 4 per cento; il piccolo movimento liberista di Oscar Giannino intorno al 2-3 per cento, ma con valori sensibilmente più alti in alcune regioni del Centro-Nord; infine il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo di nuovo in crescita, intorno al 12-15.

Poiché il premio di maggioranza in Senato viene attribuito su base regionale, sono state effettuate anche diverse rilevazioni sul voto nelle grandi regioni. Da queste si ricava un dato su cui merita riflettere. Sommando Lombardia, Veneto, Campania, Puglia e Sicilia si arriva a circa 30 milioni di abitanti, pari alla metà della popolazione: ma, poiché l’analisi dei sondaggi in queste 5 regioni mostra che al 7 febbraio centrodestra e centrosinistra erano sostanzialmente alla pari, il vantaggio nazionale di circa 5 punti del centrosinistra implicherebbe che nel resto d’Italia questo distacchi il centrodestra di ben 10 punti.

Messa così, la cosa non pare del tutto credibile. Fidarsi dei sondaggi nazionali o di quelli locali? Il problema si era posto più o meno negli stessi termini nella campagna elettorale americana dello scorso autunno, e venne fuori che i sondaggi fatti sui singoli stati erano i più affidabili. Potrebbe valere lo stesso anche da noi, soprattutto se si pensa che negli ultimi anni o decenni l’Italia si è sempre più diversificata territorialmente, per profili economici, sociali, culturali, politici. Questo implicherebbe che il distacco “reale” del centrosinistra sia assai più limitato, diciamo intorno ai 3 punti.

Per completare la lettura dei dati, è interessante cercare di capire meglio chi sono gli indecisi/astenuti: questi risultano (da un sondaggio IPSOS per il “Il Sole 24Ore”, 6 febbraio 2013) più che proporzionalmente donne, anziani, a basso livello di istruzione, casalinghe e pensionati, persone che non lavorano; se lavorano nel pubblico sono soprattutto indecisi, se nel settore privato sono soprattutto astenuti; vivono in prevalenza nei piccoli centri, e si distribuiscono più o meno equamente in tutta Italia.

Poiché nella lettura dei sondaggi i trend sono più importanti dei dati puntuali, che possono risentire dell’effetto di una particolare notizia o episodio, destinato a essere “riassorbito” nei giorni successivi, vale la pena osservare che tutte le rilevazioni nazionali senza eccezione hanno registrato un vantaggio più o meno grande per il centrosinistra; che il centrodestra dopo la rimonta di dicembre-gennaio non pare essere ulteriormente cresciuto; che la lista Monti è stata testata per un tempo troppo breve da essere affidabile, ma non sembra in crescita; e infine che in crescita costante da gennaio in avanti è il Movimento 5 Stelle (Istituto Piepoli, 6 febbraio 2013), avendo toccato fino al 18-20 per cento dei consensi dopo le elezioni amministrative della primavera 2012 ed essendosi poi ridimensionato intorno al 10-12 in coincidenza con le primarie del Pd e l’apertura della campagna elettorale.

Un’ultima indicazione viene dalle risposte alle domande “indirette” – del tipo “Chi credete che sarà il prossimo Primo Ministro”, o “chi secondo voi vincerà le elezioni” – che spesso si dimostrano affidabili dal punto di vista predittivo, in quanto gli intervistati fanno inconsapevolmente la media di ciò che registrano nel giro delle proprie conoscenze. Qui nettamente al primo posto, con il 40 per cento circa delle indicazioni, vi è la coalizione guidata da Pierluigi Bersani. A favore del quale, e non appaia una notazione futile, potrebbe giocare anche il successo in termini di audience del Festival di Sanremo, guidato dal duo Fazio-Littizzetto.

Infine, un’osservazione retrospettiva. Nei sistemi tendenzialmente bipolari, per la vittoria contano due fattori: la capacità di ciascuno schieramento di chiamare a raccolta i propri, e quella di attrarre elettori delusi dallo schieramento opposto. In Italia tutti i dati disponibili – elettorali e ricavabili dai sondaggi – mostrano che da vent’anni a risultare determinante è stato sempre il primo: ossia, che vi è scarsissima mobilità fra l’elettorato di destra e quello di sinistra. Solo la recente ipotesi di candidatura di Matteo Renzi alla guida del centrosinistra aveva fatto vedere la possibilità di un rimescolamento delle carte. L’ipotesi è tramontata, dunque fra quattro giorni la partita si giocherà di nuovo sulla capacità di mobilitare i propri. Con il fatto che questa volta il mercato politico offre ben quattro differenti prodotti – lista Monti, Movimento 5 stelle, Rivoluzione Civile, Fermare il declino – a chi, da destra o da sinistra, in maniera più sofisticata o più grezza, voglia esprimere scontento e voglia di cambiamento. In una competizione in cui anche le frazioni di punto percentuale contano, questo rende il risultato ancor più difficile da anticipare.

3. Sulla base di tutto questo, e tenendo conto del contesto di cui al punto 1, mi arrischio a formulare una previsione: centro-sinistra 30-32 per cento, centrodestra 28-30, lista Monti 10-12, Rivoluzione Civile intorno al 4, Giannino (almeno, prima dei recenti infortuni su titoli di studio dichiarati e non conseguiti) intorno al 3, Movimento 5 Stelle 18-20, altri 2-4.

Che cosa implicherebbe un risultato del genere in termini di seggi, dati i meccanismi della legge elettorale (premio di maggioranza attribuito su base nazionale alla Camera e regionale al Senato, soglia di sbarramento per la Camera del 4 per cento su base nazionale e per il Senato dell’8 su base regionale, più svariate ulteriori complicazioni di cui vi faccio grazia)? È presto detto: premio di maggioranza per il centrosinistra alla Camera e nessuna coalizione maggioritaria al Senato; con in più il ragionevole dubbio che l’alleanza Bersani-Monti (a oggi, nonostante tutto, l’ipotesi meno improbabile per il dopo elezioni) riesca ad assommare quella metà più uno dei seggi che è il minimo indispensabile per catalizzare in seguito consensi da altre parti (senatori a vita, eletti all’estero, eletti in Val d’Aosta e Trentino-Alto Adige, scissionisti da altri partiti, eccetera).

3. Guardiamo allora al dopo elezioni, sul piano politico e su quello istituzionale. La campagna elettorale avrebbe potuto essere un “momento di verità” per gli italiani, portandoli a comprendere le difficoltà del momento attuale ma anche la necessità e la effettiva concreta possibilità di scelte capaci di invertire una ultradecennale tendenza al declino. Si è svolta invece all’insegna della superficialità più assoluta, dell’offerta di promesse vaghe e/o impossibili da mantenere.

La dura verità è che le dimensioni del debito pubblico italiano sono tali per cui qualunque percezione di inaffidabilità verrebbe immediatamente e duramente castigata dai mercati finanziari. Nel breve periodo, gli aggiustamenti redistributivi sono possibili solo al margine, se non si vuole ulteriormente incrementare una tassazione già insopportabile, almeno per chi le tasse le paga. L’attività produttiva si contrae, sicché la priorità delle priorità dovrebbe essere quella di sostenerla, attraverso tutti quei provvedimenti – liberalizzazioni, deregolamentazioni, semplificazioni, privatizzazioni – che non costano ma nonostante ciò molto dispiacciono a tutti gli interessi costituiti, in qualsiasi sfumatura dello spettro politico questi si riconoscano. Non a caso, dopo le primarie del PD in cui la candidatura di Matteo Renzi aveva rimescolato le carte, di tutto ciò non si è più parlato affatto. Di questo passo, tuttavia, dovrebbe esser chiaro a tutti che fra breve il miglior modello redistributivo immaginabile non avrà più a disposizione neanche un centesimo da stanziare per la più nobile delle cause.

Inoltre, dopo una campagna elettorale aspra fino al limite della volgarità, e in cui uno degli effetti forse non voluti della lista Monti è stato quello di ributtare verso le estreme centrodestra e centrosinistra, sarà più difficile pensare a grandi coalizioni o comunque ad alleanze fra diversi.

È per questo che, sul piano istituzionale, non può affatto essere scartata l’ipotesi che si torni a votare in tempi brevi, se non esce dalle urne o non riesce a formarsi in parlamento una maggioranza politica chiara. È poco credibile, inoltre, che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano accetti una soluzione pasticciata, in cui il governo vada a cercarsi voti sparsi nelle aule di Camera e Senato (non lo accetterebbero, peraltro, neppure i mercati finanziari). I tempi per una seconda elezione sarebbero stretti, sovrapponendosi a quelli della scadenza del mandato dello stesso Napolitano (il 15 maggio). Ma in mancanza di altra soluzione, questa sarebbe obbligata.

Volendo attribuire una probabilità allo scenario, diciamo che potrebbe essere del 40 per cento, contro il 60 per cento che una maggioranza ci sia e un governo si formi. In parole povere: chiunque vinca le elezioni, è difficile che fra i vincitori ci sia l’Italia.