L’uso del Pil come metro universale per quantificare lo stato di salute delle economie nazionali è da diversi anni sotto giudizio critico e revisione. Gli Stati però non vanno oltre il calcolo del Pil, perché i loro Governi sarebbero giudicati peggio.
I sistemi di misura condizionano le scienze
Le discipline scientifiche sono condizionate dai sistemi di misura. Anzi, di solito investono parte del tempo dei ricercatori per affinare le tecniche per misurare i fenomeni che studiano. Solo migliorando le misure che dell’universo producono i radiotelescopi possiamo pensare di conoscere di più sulla sua origine e sul suo comportamento.
L’economia non dovrebbe essere differente. Il principale indicatore di misura dello stato di un’economia è usualmente il Pil e la contabilità nazionale, come branca della statistica, è l’articolato insieme di protocolli e convenzioni che dice come calcolarlo.
E’ così che per sapere se lo stato dell’economia è di espansione, di recessione oppure di stagnazione siamo tutti dipendenti da quattro emissioni annuali di dati (il Pil è calcolato trimestralmente pressoché ovunque) e non ci facciamo mancare i commenti direzionali anche quando le variazioni rientrano nell’errore statistico, che nessun istituto di statistica del pianeta si guarda bene dal dichiarare.
Nel tempo, però, il Pil ha mostrato di essere una misura affetta da problemi di errore più o meno sistematici. Proviamo a elencare i principali.
I danni dell’economia illegale fanno crescere il Pil
Il Pil non contiene tutte le attività nascoste e sommerse e quando le contiene le considera male. Parte di queste attività sono nascoste e legittime; altre sono nascoste e illegali. Le prime si potrebbero – a patto di averne conto – includere nel Pil e così si fa, non senza qualche arrampicata sugli specchi, ma le seconde non producono un miglioramento del benessere, pur producendo dei beneficiari. Se ci sono beneficiari ma non benefici netti sarebbe bene tenerne conto non tanto come contributi positivi all’economia, ma in termini di costo che l’economia sopporta per la loro presenza. Questo, però, non è previsto dai calcoli ufficiali del Pil, che ignorano tout court tali attività o le considerano solo in positivo.
Tutte le risorse naturali sono illimitate e gratuite
Una seconda questione è quella delle risorse naturali. Lo stock di risorse naturali non trova posto nella contabilità nazionale. L’unico stock che viene contabilizzato, ammortizzato, accresciuto, è quello del capitale che deriva dall’accumulazione degli investimenti e dalle costruzioni edili. Come dire, banalizzando, che per convenzione una miniera è calcolata come somma di pale, badili, scavatrici, ma il minerale non vale nulla. Così come vale nulla il terreno, mentre vale la sua recinzione e il capanno degli attrezzi. Estrarre un barile di petrolio produce pertanto un enorme valore aggiunto, perché la madre terra non viene pagata. Però, a dire il vero, quel barile di petrolio estratto non c’è più, è andato per sempre, e questo costo (che è sopportato dai posteri che ricevono dai contemporanei una terra con un barile di petrolio in meno) non è considerato da nessuna parte.
Per semplificare, è come se tutte le risorse fossero indefinitamente rinnovabili, mentre è ben chiaro che le risorse si dividono in esauribili e rinnovabili e anche quelle rinnovabili, come i boschi da legno, spesso consumano risorse esauribili, come la terra su cui i boschi sono piantati. E’ probabile che la non considerazione dei costi delle risorse naturali abbia comportato e comporti un tasso di sfruttamento non ottimale, ossia troppo veloce rispetto al tempo di rinnovo delle risorse e alle capacità della tecnologia di sostenere la dinamica delle risorse attraverso il riuso e il riciclaggio.
Il capitale culturale vale zero
Così come non esiste una contabilità dei beni naturali, non ne esiste neppure una dei beni culturali. Rispettivamente, la Grande Muraglia e Pompei sono accomunati da un bello zero nel capitale nazionale della Cina e dell’Italia. Al massimo si registrano i costi di manutenzione e i biglietti dei visitatori. Gli unici beni culturali che esistono sono quelli che possono essere scambiati. Un quadro di un artista che viene venduto da una galleria esiste nel momento della vendita, ma scompare nel conto del capitale, sia esso pubblico o privato. Ricompare nella ricchezza delle famiglie, ma senza un ruolo qualsivoglia nella determinazione del reddito incluso nel Pil. Se l’acquisto è fatto da un museo, invece, nel capitale pubblico non comparirà mai, perché non è previsto che lo Stato abbia una situazione patrimoniale.
La maggior parte del comune sentire è che i beni artistici e culturali siano inestimabili, e pertanto non si contano. Peccato che quasi tutti i beni artistici si possano assicurare e gli assicuratori, in un modo o nell’altro, un valore lo trovano sempre, fosse pure la massima perdita che il loro possessore è disposto ad accettare. Certamente, si tratta di un valore soggettivo, ma quale valore può dirsi totalmente oggettivo? Anche i valori di scambio sono soggettivi, perché valgono solo nel momento in cui i soggetti dello scambio agiscono, un istante dopo potrebbero cambiare opinione.
Gli scambi non monetari non esistono
Una quarta questione è quella dell’oggetto della rilevazione del Pil. Il Pil contiene il valore delle transazioni monetarie, ossia registra il valore al momento dello scambio. Registra i consumi quando le famiglie acquistano, gli investimenti quando le imprese comprano i beni capitali, ma non registra per esempio le transazioni che hanno alla base il semplice baratto (il che è poco frequente nelle economie sviluppate, ma è molto più frequente nelle economie in via di sviluppo); non registra le transazioni originate da una semplice donazione, ossia senza una manifestazione monetaria, ma realizzate per cortesia, per via delle relazioni sociali o familiari sottostanti o per via del volontariato. Il volontariato non produce alcunché, sia esso formale e organizzato, sia esso informale e famigliare. Se quindi assumete una baby sitter, l’economia produce un valore. Se lo stesso servizio ve lo dona la nonna, non vale nulla. I volontari ospedalieri producono sollievi che semplicemente non esistono, perché nessuno paga. Tra l’altro, più si sviluppa la sharing economy, più questo tipo di transazioni, che il Pil non vede, creano utilità priva di dignità statistica. Le banche del tempo, per esempio, non esistono per il Pil, mentre si diffondono sempre di più nella società. E’ il caso di TimeRepublik, una banca del tempo digitale, lanciata nel 2012 e che nel 2014 aveva superato i diecimila utenti in 80 paesi. Va considerato che nell’era moderna sta tramontando il modello che vedeva le persone attive fino al momento della pensione. Oggi, anche grazie al cambiamento delle tecnologie, le persone restano attive per buona parte della terza età, complici l’allungamento della vita e l’accorciamento del periodo di permanenza nel lavoro. Ma la terza età attiva è esclusa dal produrre benefici economici contabilizzati dal Pil, il che è ovviamente contraddetto dai fatti.
Più conta il mondo finanziario, meno si vede
Uno dei vuoti principali del Pil è che sostanzialmente solo l’interesse entra in qualche modo a costituirlo. Il raccordo tra il reddito e il capitale sono l’interesse, il profitto e l’ammortamento, quest’ultimo legato a una vita del capitale indagata poco e male. Non è previsto, per esempio, che la ricchezza finanziaria possa produrre un reddito diverso dal risultato di gestione delle aziende. Se avete comprato azioni cinesi che sono raddoppiate di valore, questo non interessa al Pil. Non interessa se le avete vendute guadagnandoci nése le avete vendute perdendoci. Le variazioni di valore monetario del capitale finanziario non sono considerate (lo sono, a ben vedere, dall’Erario, che non se le fa scappare), ma la rappresentazione che dà il Pil del benessere di un paese ricco di fondi pensione ed assicurazioni e di uno che ne è privo è sostanzialmente la stessa.
L’innovazione nella spesa pubblica distrugge il Pil
Non si può non terminare questo breve esame con un punto che è prevalentemente dato per scontato: la spesa pubblica, più o meno quella che vale intorno al 15-20 per cento del Pil in qualsiasi paese, entra nel Pil per quel che è, ossia produce un’utilità e un valore pari a se medesima, il che rappresenta una forzatura piuttosto evidente e si presta perfino a certi paradossi. Se il sistema pubblico introduce più informatica e produce servizi a minor costo e di migliore qualità per i cittadini, risparmiando distrugge il Pil. Se invece non modernizza e continua ad utilizzare tecnologie obsolete, a bassa produttività, aumenta la spesa insieme alla domanda, e crea il Pil. Un altro esempio di spesa pubblica che ingrassa il Pil e non necessariamente il benessere è quella militare. Gli eserciti sono sempre stati necessari per garantire la pace, ma solo per convenzione stanno dalla parte attiva di questa curiosa partita doppia. Il loro costo rappresenta un valore, a convenzioni invariate. Ma c’è chi pensa che il loro costo costituisca un onere che una società deve pagare per mantenere la pace, e che quindi vadano sottratti dal Pil o da un indicatore completo di benessere e non invece cumulati, come accade per convenzione nel Pil.
Il warning inascoltato dell’inventore del Pil
Considerati tutti i limiti del Pil, per il momento nessuno sembra volerlo cambiare, nonostante il suo inventore, Simon Kuznets, ne abbia consegnato la formula originaria in un rapporto al Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti nel lontano 1934 (“The National Income 1929-32”), avvertendo che “La capacità della mente umana di semplificare una situazione complessa in una forma compatta diventa pericolosa, senza un controllo dei criteri definiti in via assoluta”. In altri termini, il Pil è il frutto di convenzioni e di ipotesi assolute e il suo inventore lo mise nelle mani dei suoi utilizzatori con un warning rimasto ampiamente inascoltato.
I contributi teorici per superare il Pil da Tobin, Fitoussi e Stiglitz al GPI
Diversi studiosi hanno fornito contributi interessanti per andare oltre il Pil. Nordhaus e Tobin negli anni 70 elaborarono un Indice di benessere economico. Stiglitz, Sen, Fitoussi hanno consegnato nel 2009 un rapporto alla Commissione UE sulle misure alternative del Pil. Ma il solo esperimento di ricalcolo sistematico è quello del GPI, Genuine Progress Indicator, che nessun istituto di statistica ha per il momento supportato. Gli autori e sostenitori di questo indice, Daly, Cobb e Lawn, hanno dimostrato che è possibile correggere il valore della produzione con i costi e benefici di realizzarla, ma non hanno convinto tutti. In particolare, molte delle stime coinvolte nel GPI sarebbero, secondo alcuni, più suscettibili di manipolazioni politiche. Altri indicatori proposti sono l’HPI (Happy Planet Index), lo Human Development Index (HDI), ma tutti sono più o meno rimasti sulla carta, nonostante il GPI, per esempio, possa essere calcolato, come dimostra il Governo dello Stato del Maryland, che ne mantiene la serie storica dal 1960.
Gli Stati non calcolano il GPI e altri indici, perché i loro politici sarebbero giudicati male
Il motivo per non introdurre misure alternative del Pil potrebbe essere a ben vedere il seguente: a conti fatti, e facendo i conti per bene, l’economia dei principali paesi del pianeta potrebbe essere non così in salute come dice il Pil. Facendo una media di 17 paesi Italia inclusa (cfr. figura), il GPI pro capite declina anche se aumenta il Pil. E allora? Per il momento, soprassediamo.
Figura. GPI pro capite e PIL pro capite di un aggregato di 17 Stati. Fonte: Kubiszewski e altri (2013: 6)
Riferimenti
Lawn P.A. (2003). "A theoretical foundation to support the Index of Sustainable Economic Welfare (ISEW), Genuine Progress Indicator (GPI), and other related indexes". Ecological Economics. 44: 105–118.
Kubiszewski et al. (2013). Beyond GDP: Measuring and achieving global genuine progress. Ecological Economics. 93: 57-68.
Nordhaus W.D., Tobin J. (1973). “Is Growth Obsolete?”. In: Moss M. (ed.), The Measurement of Economic and Social Performance (Studies in Income and Wealth, Vol. 38, NBER, 1973), New York, p. 509-532.
Stiglitz J. E., Sen A., Fitoussi J.-P. (2009). Report by the Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress, Paris.
GPI - Genuine Progress Indicator, http://genuineprogress.net
GPI dello Stato del Maryland,
http://www.dnr.maryland.gov/mdgpi/mdgpioverview.asp
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