Il 15 febbraio chiude la coltelleria G. Lorenzi in Via Montenapoleone a Milano. Chiunque sia passato di lì almeno una volta l’avrà senz’altro notata. Le sue vetrine esponevano utensili di lusso, dai più prosaici ai più bizzarri: dai rasoi per la barba agli apparati per rodare la pipa senza doverla fumare, passando per ogni tipo di oggetto da taglio, dall’Opimel all’ascia in titanio.

La chiusura dell’ultimo negozio storico di Via Montenapoleone può esser letto come un ulteriore segno del passaggio di un’epoca. Il bar Cova è stato acquistato dai francesi e sono ormai più di cinquecento le ditte italiane che, come Gucci, Bulgari e Valentino, sono passate in mano straniera. Ed è di qualche giorno fa la notizia che anche un altro baluardo del design italiano, la poltrona Frau, è stata venduta. In questo sconfortante panorama la chiusura di G. Lorenzi pare in effetti un altro segno dei tempi. Stiamo forse assistendo al tramonto del Made in Italy, il cavallo di razza dell’export italiano? Sopravvivrà il lusso italiano una volta passato in mano straniera?

1. Un recente studio Prometeia pare rassicurante. Non solo i marchi italiani sopravvivono al trapianto di proprietà, ma in genere ci guadagnano, e senza che venga percepito un deficit di “italianità” nel prodotto. La cosa è vera anche quanto i prodotti “Made” in Italy non vengono più “fatti” in Italia, come accade oggi per un vasto numero di prodotti di consumo. Il che ovviamente presenta un paradosso. Come può sopravvivere il marchio Made in Italy in questa situazione? Che cos’è esattamente il Made in Italy? Può sopravvivere il marchio alla metaforizzazione del verbo fare?

Se la risposta ci pare incerta, o negativa, è proprio perché ci siamo dimenticati che cosa sia il Made in Italy.

Una vulgata molto diffusa oggi fa coincidere il declino del Made in Italy proprio con la metaforizzazione del verbo fare. Se un oggetto non è “fatto” in Italia non è Made in Italy. Per costoro il Made in Italy è “saper fare”, non uno stile qualsiasi applicabile a un oggetto prodotto ovunque. Ovviamente c’è del vero in questa vulgata che identifica le origini del prodotto italiano di lusso con il fiorire delle arti minori nel tardo medioevo. Solo che questo sguardo d’orizzonte – assai generoso con i limiti merceologici del prodotto – fa perdere di vista le origini molto più recenti di questo particolare modo di produrre oggetti. Erano queste origini che sberluccicavano dalle vetrine di G. Legrenzi in Via Montenapoleone. Vediamo di spiegare perché.

2. Se da un lato è vero che il Made in Italy è legato al saper fare che viene dal salto evolutivo compiuto dall’artigianato di lusso una volta avviata l’industrializzazione, dall’altro è anche vero che senza una forma e uno stile “moderno” quelle lavorazioni sarebbero finite sul binario morto della storia. Non dimentichiamoci che quello che colpiva della produzione italiana del dopoguerra era il suo carattere assolutamente moderno, tradizionale nella lavorazione, ma futuristico nello stile. Il Made in Italy non può dunque essere ridotto alla sola tradizione. Senza il modalizzatore stilistico dato dalla cifra futuribile non è nulla. Ma da dove viene questa tensione verso il moderno, verso il futuro, senza la quale il Made in Italy semplicemente non è? 

marasco ok ruota
marasco ok ruota
 

Vogue America, 1949

 Guardiamo per un ultima volta le vetrine di G. Lorenzi. In queste teche dal rigore quasi museale è ruotato un assortimento pressoché illimitato di oggetti provenienti da tutto il mondo. Se tutto ciò aveva una logica era la logica della curiosità e della ricerca infinita. Una ricerca che trova un parallelo nelle collezioni uscite dal quadrilatero della moda milanese a partire dal secondo dopoguerra. Non ci vuole molto a trovare una certa somiglianza fra le giacche destrutturate di Giorgio Armani e l’informale eleganza di un Cary Grant. Certi capi spalla di Armani escono quasi intonsi dal guardaroba dell’esercito americano. Le sue calzature ricordano in modo sornione e divertito le scarpe per il bowling o per il golf. Noterete che si tratta di cose che nulla dovrebbero avere a che fare con il Made in Italy rigorosamente concepito. Se non che erano la materializzazione di immagini provenienti dal mondo, e più precisamente dall’America, che nel dopoguerra era il mondo per gli italiani.

3. Le vetrine di G. Lorenzi erano l’ultima traccia da rimuovere dell’origine del Made in Italy nella curiosità per il mondo esterno nata da un ventennio di autarchia e guerre insensate. Non deve stupire quindi se il Made in Italy ha avuto successo nel mondo, perché era dal mondo che proveniva. E non deve stupire se il Made in Italy può sopravvivere alla globalizzazione ritornando al mondo. È solo un peccato che non siano sempre gli italiani a trarne vantaggio. Perché ciò possa accadere occorrerebbe mettere in soffitta il racconto delle origini remote delle lavorazioni e concentrarsi di nuovo sul futuro. E qui usciamo dalla merceologia per tornare all’orizzonte della crisi in atto nel paese. Che non è una crisi contingente, ma sistemica. È da troppo tempo che l’Italia non guarda al futuro. Occorrerebbe ricominciare a farlo, e non solo per dare nuova linfa al Made in Italy. 

* Anthony Louis Marasco è Course Leader del corso di master in Business Design della Domus Academy di Milano.