C’è un aspetto della discussione attuale sulla riforma del mercato del lavoro che rischia di sfuggire, soprattutto a chi non ha esperienza diretta del conflitto nelle relazioni industriali e della sua gestione pratica in Italia (chi scrive ha seguito per qualche anno da assessore provinciale alcune crisi aziendali: e  basta questo per farsi un’idea realistica delle cose). Si tratta, diciamo così, del lato nascosto – del lato meno nobile – della discussione: come quando, in certe liti, ci si accapiglia per inezie, ma in realtà si litiga sui ruoli e sui rapporti di potere reciproci.

1. Cominciamo  dalla proposta di sostituire alle diverse forme di tutela dalla disoccupazione oggi previste (cassa integrazione ordinaria, straordinaria, mobilità, prepensionamenti, ecc.) un unico strumento (la sigla è Aspi, Assicurazione sociale per l’impiego), che tuteli tutti coloro i quali perdono il lavoro, a prescindere dalle dimensioni dell’azienda di appartenenza.  Sul piano dei principi e delle regole, una modalità di tutela universalistica (ossia che copre tutti gli aventi diritto, per il solo fatto di aver perso il lavoro), definita per legge (ossia in maniera impersonale, sicché ciascuno saprebbe in anticipo su che cosa può contare in caso di disoccupazione), dovrebbe essere preferita al regime attuale, in cui gli strumenti di sostegno al reddito si decidono caso per caso, ai diversi tavoli di crisi, nazionali o locali a seconda delle dimensioni dell’impresa e con variabile (“discrezionale”) generosità nei confronti degli individui coinvolti.

Si potrà discutere della durata della tutela, del suo valore economico, dell’efficacia degli strumenti di formazione/accompagnamento che all’Aspi dovrebbero sommarsi, dei tempi di passaggio dal vecchio al nuovo regime, di chi debba sopportare i costi relativi…  ma il principio in quanto tale non può che esser visto con favore. Liberali o socialisti o cattolici, da questo punto di vista, non dovrebbe fare differenza.

E di fatto, nessuno obietta al principio, ma nessuno neanche lo saluta come un vero cambiamento in meglio del sistema attuale. Il motivo di questo atteggiamento è semplice: la famosa “gestione dei tavoli di crisi” dà visibilità e ruolo alle rappresentanze sindacali e datoriali, ai politici, ai funzionari ministeriali o regionali… ossia, a un insieme di soggetti che perderebbero rendite di potere e rendite di posizione se da un regime discrezionale e diverso caso per caso si passasse a un regime uguale per tutti e stabilito per legge.

Che fine farebbero, in questo caso, i professionisti delle “vertenze”?

2. Veniamo a una seconda questione, quella di introdurre maggiore flessibilità in uscita in cambio di minor flessibilità in entrata.

All’epoca della riforma Biagi, quella che introdusse le diverse tipologie di lavoro precario oggi largamente utilizzate, ciò che accadde – semplificando molto, è evidente – fu che, constatata l’impossibilità di “flessibilizzare” anche minimamente il contratto tipico a tempo indeterminato, ma constatato anche che quella formula contrattuale non reggeva più, si scelse la via di provare a introdurre tipologie contrattuali “alternative”. Con il risultato, sommamente iniquo ma ormai nei fatti, che in Italia si sono creati due mercati del lavoro: uno per i dipendenti pubblici e di alcune imprese private, che godono ancora di tutele “arcaiche”; l’altro per tutti gli altri, ossia soprattutto – purtroppo – per i giovani.

Un percorso che miri a sanare – ci vorrà comunque del tempo – questa profonda ingiustizia dovrebbe, di nuovo, essere accolto con generalizzato favore.

Se così non accade, è perché, una volta ancora, ci si paralizza nel gioco del “più uno” (o se si preferisce, e in termini più desueti, pas d’ennemi à gauche): non si vuole dire di sì a una proposta migliorativa ragionevole e praticabile, perché c’è il rischio che qualcuno gridi al tradimento, alla “svendita” dei diritti, eccetera, eccetera.

Qui, la rendita è quella di chi chiede l’impossibile, ben sapendo che tale è, ma a questo legando la costruzione del proprio consenso (servono esempi, nel panorama italiano attuale?). Ed è inquietante che contrarietà vengano formulate anche dalle parti datoriali, come se davvero la competitività delle imprese potesse dipendere dalla possibilità di disporre di una massa di mano d’opera sottopagata e senza diritti.

3. Da ultimo, l’art. 18.

Una delle ragioni addotte a sostegno della norma vigente è, paradossalmente, quella dello scarso impiego pratico che se ne fa. Ma questo è un argomento a doppio, anzi a triplo, taglio. L’art. 18, infatti, viene utilizzato poco perché poche sono in Italia le imprese sopra i 15 dipendenti (ma questo è un grave punto di debolezza italiano, e se, com’è possibile, l’art. 18 ha avuto una pur minima funzione nel determinare questa situazione, non si tratta certo di un argomento a favore della norma). Viene utilizzato poco, inoltre, perché il suo valore è puramente “simbolico”: rappresenta cioè una specie di arma ultima che si può sempre brandire nel confronto sindacale, confortati dal fatto che si è consolidata una interpretazione giurisprudenziale estremamente rigida della norma. In pratica, se il sindacato vi fa ricorso, il datore di lavoro passa automaticamente nella posizione dell’”imputato”.

Non è che le imprese in Italia non licenzino, né che tutti i licenziamenti finiscano davanti al giudice: è che toccare l’art. 18 così com’è ora (e dunque modificarlo senza peraltro intaccarne il valore vero, ossia la tutela dal licenziamento per motivi discriminatori, che si intende addirittura allargare alle imprese con meno di 15 dipendenti) rischia di estromettere dal gioco i professionisti del conflitto.

4. In questa situazione, sfumano evidentemente in secondo piano tutte le ragioni “ragionevoli” a favore della riforma. A cominciare dal fatto che il suo impianto avvicinerebbe il sistema italiano ai migliori modelli europei, quelli che tutti a parole sostengono di prendere ad esempio. O la considerazione che, come numerose survey indipendenti hanno mostrato, uno dei motivi che trattengono le imprese straniere dall’investire in Italia è costituito, non solo e non tanto dalle leggi sul lavoro (dopotutto, il posto di lavoro è tutelato ovunque in Europa), ma dall’uso “politico” che ne viene fatto o anche solo minacciato.

In gioco ci sono rendite di posizione rilevanti, a cui si ancorano soggetti, quali i sindacati e le organizzazioni datoriali, in forte crisi di rappresentanza; e che partiti politici anch’essi in grave crisi di rappresentanza  non osano smontare.

Non facciamoci illusioni: il passaggio della riforma del mercato del lavoro è cruciale non solo per il tema in sé, ma proprio per le prospettive del nostro Paese tutto intero. È qui che si vedrà se c’è davvero una speranza di uscire dal contrasto paralizzante degli interessi particolari, e scommettere che insieme abbiamo ancora un futuro.