Tra i temi della campagna elettorale americana la proposta di nuovi accordi commerciali internazionali è sì al centro del dibattito economico e politico. Ma più che sulle future relazioni trans-atlantiche (TTIP), a monopolizzare l’interesse di candidati e opinione pubblica è la regolazione dei flussi trans-pacifici (TPP).

Non è tutt’oro quello che riluce. Questo vecchio saggio proverbio si adatta perfettamente alla tormentata storia dei due progettati accordi commerciali TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) e TPP (Trans Pacific Partnership). Il primo interessa gli Stati Uniti e l’Europa ed ha lo scopo dichiarato di promuovere il commercio e la crescita economica multilaterale. I negoziati avrebbero dovuto concludersi nel 2014, ma stando a molti esperti non lo saranno prima del 2020. Inoltre, è fortemente probabile che il trattato non vedrà mai la luce. Il TPP è un accordo commerciale tra dodici Paesi del Pacific Rim, firmato il 4 Febbraio scorso ad Auckland, nella Nuova Zelanda. Tra le sue finalità, spicca naturalmente quella di promuovere la crescita economica con una serie di misure che mirano a ridurre le barriere commerciali, soprattutto tariffarie, e ad introdurre un meccanismo per risolvere le dispute tra stati e investitori. Gli Stati Uniti considerano il TPP l’equivalente asiatico del TTIP con l’Europa. L’Amministrazione Obama ha svolto un’intensa azione diplomatica a favore del TPP non solo per calcoli commerciali ma anche, se non soprattutto, per considerazioni geopolitiche, prima fra tutte quella di stringere un’alleanza più stretta con i Paesi asiatici esposti al pericolo dello strapotere economico della Cina che mira ad imporre le sue regole nell’Asia orientale e sud-orientale. Molto più che non il TTIP, il TPP è al centro di un uragano politico-economico negli Stati Uniti.

Dietro la facciata di esultanza dello Establishment per il più ambizioso accordo regionale sul commercio e gli investimenti, c’è molto che raffredda gli entusiasmi. Il Premio Nobel Joseph Stiglitz è stato tra i primi a dare un quadro ben diverso e per molti aspetti preoccupante delle conseguenze del trattato, definendolo “un accordo raggiunto per gestire le relazioni commerciali e gli investimenti dei Paesi partner a beneficio delle più potenti lobbies di ciascun Paese”. Stiglitz ha quindi denunciato il TPP come un accordo che regola tutto meno che il “libero” commercio. Ed ancora, incalza il Premio Nobel, le clausole del TPP non mancheranno di restringere l’aperta concorrenza e di far aumentare i prezzi per i consumatori degli Stati Uniti e del mondo intero.

Il fronte a favore del TPP sbandiera le statistiche della U.S. International Trade Commission, secondo cui il TPP aumenterebbe il prodotto lordo degli Stati Uniti in ragione di 57,3 miliardi entro il 2032 e permetterebbe la creazione di 128.000 nuovi posti di lavoro. Secondo questa campana, l’approvazione congressuale del TPP aprirebbe grandi sbocchi in Asia all’attività economica degli Stati Uniti ed in modo particolare accrescerebbe la protezione della proprietà intellettuale per le aziende americane.

Le possibilità di approvazione del TPP sono in verità calate vistosamente nell’ultimo anno non soltanto per la crescente opposizione di politici, economisti e leader sindacali, ma anche per le posizioni assunte dai candidati alle investiture per la presidenza. Il repubblicano Donald Trump si è pronunciato senza mezzi termini contro il TPP, affermando che si tratta di un “bad deal” ossia di un cattivo affare dal quale sarebbe la Cina a trarre il maggior vantaggio. Ragion per cui promette di elevare al 25 per cento le tariffe a carico delle importazioni cinesi. In verità, Trump non è il solo a prendersela con la Cina giacché è da lungo tempo che gli Americani protestano contro la strategia cinese di tenere artificialmente basso il valore della propria moneta facilitando le esportazioni. Nel campo democratico, il Senatore Bernie Sanders ha sparato a zero sin dal primo momento contro il TPP definendolo “un accordo commerciale disastroso che protegge gli interessi delle compagnie multinazionali a spese dei lavoratori e dei consumatori, dell’ambiente e delle fondamenta della democrazia americana”. Ed ancora, Sanders si è scagliato contro la segretezza nella quale è stato negoziato il trattato “dietro le porte chiuse dal mondo corporativo”. Hillary Clinton è un capitolo a parte, con aspetti altalenanti e decisamente imbarazzanti per l’ex Segretario di Stato. Sotto il bombardamento di accuse di Sanders per aver appoggiato i precedenti accordi commerciali, tra cui il North America Free Trade Agreement negoziato dal marito e Presidente, Hillary Clinton si è dichiarata contraria al TPP rimangiandosi il giudizio favorevole espresso quando era Segretario di Stato. L’opposizione al TPP è particolarmente intensa in quegli stati industriali del Rust Belt (primi fra tutti Ohio, Wisconsin e Illinois) che hanno risentito negativamente della globalizzazione. Non è stato facile per Hillary Clinton fare marcia indietro, dopo aver salutato il TPP nel 2012 come un nuovo “gold stardard”, per poi sostenere, in un dibattito televisivo con il Senatore Sanders, di aver atteso la fine dei negoziati prima di decidere di opporsi al trattato.

Hillary Clinton non aveva prestato attenzione a quanto da tempo affermava l’esponente più rispettata della sinistra democratica, la Senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren. La Warren aveva rivolto i suoi strali principalmente contro una serie di clausole riguardanti il campo minato dello ISDS (Investor-State Dispute Settlement). Accettare lo ISDS significa favorire le grandi multinazionali minando la sovranità degli Stati Uniti, ammoniva la Senatrice, in quanto lo ISDS permetterebbe a compagnie straniere di sfidare le leggi statunitensi senza doversi mai presentare dinanzi una corte americana. Grazie allo ISDS, una compagnia straniera potrebbe rivolgersi ad una commissione di arbitrato internazionale escludendo, nel caso di vittoria di quest’ultima, la possibilità per la controparte di appellarsi presso le corti americane. Peggio ancora, il collegio arbitrale potrebbe costringere gli Stati Uniti, ossia i suoi contribuenti, a versare milioni o miliardi di dollari di danni.

Il ricorso allo ISDS è in costante ascesa, con 58 casi registrati nel 2012. Da segnalare quelli di una compagnia francese che citò per danni il Governo egiziano perché l’Egitto aveva aumentato il salario minimo; una compagnia svedese che citò la Germania dopo la decisione tedesca di porre fine gradualmente all’impiego di centrali nucleari; un’azienda dell’Olanda che citò la Repubblica Ceca perché non aveva tirato fuori dai guai una banca che era parzialmente di proprietà olandese. Non sorprendentemente, molti Senatori americani si sono detti contrari a rimpiazzare il sistema giudiziario degli Stati Uniti con un’alternativa tanto complessa quanto non necessaria. Una corrente libertaria ha protestato con indignazione perché, a suo dire, il regolamento ISDS offre un sussidio gratuito, finanziato dal contribuente americano, a Paesi caratterizzati da deboli sistemi giudiziari. Senza contare, insiste la Senatrice Warren, che il regolamento consentirebbe alle grandi multinazionali di “indebolire” le norme ambientali e del lavoro.

Il TPP entrerà in vigore dopo che un certo numero di Paesi firmatari lo avranno ratificato, prevedibilmente nel giro di due anni. La firma avvenuta nel Febbraio scorso ha messo in moto il processo di approvazione e ratifica da parte del Congresso, ma è scontato che l’accettazione di clausole considerate limitative della sovranità nazionale porterà ad insabbiare, o comunque ritardare, la ratifica. Per quanto l’Amministrazione Obama possa spingere per la ratifica, il clima di polarizzazione politica in generale e l’incandescente contesa elettorale allungano i tempi della discussione parlamentare. È da escludere che la ratifica venga messa ai voti prima delle elezioni di Novembre; l’opposizione dei tre concorrenti alla nomination dei due partiti ha reso ancor più acceso il dibattito politico attorno al TPP. Né va sottovalutata l’opposizione di un gran numero di organizzazioni sanitarie, di gruppi religiosi e sindacati che hanno recentemente inviato una lettera al Congresso in cui chiedono che il trattato venga respinto in quanto le sue clausole relative alla proprietà intellettuale e alle norme farmaceutiche renderebbero più difficile l’accesso a medicinali a basso costo nei Paesi aderenti al TPP. Per contro, organizzazioni del settore agricolo, dell’allevamento di bestiame e dell’industria alimentare applaudono le clausole per le riduzioni tariffarie che faciliterebbero la penetrazione nel mercato asiatico. Su posizioni analoghe sono la Camera di Commercio e la National Association of Manifacturers, la Confindustria americana. Per finire, la situazione è così fotografata dallo Speaker della Camera dei Rappresentanti, Paul Ryan: “non ci sono abbastanza voti per il trattato”.