L’acceso dibattito sulle unioni civili che si svolge in questi giorni in Senato chiama in causa valori morali, etici e costituzionali. In questo contesto, l'intervento in Senato di Pietro Ichino, co-firmatario del disegno di legge sulle unioni civili, è un importante monito contro chi difende principi considerati non negoziabili.
In questi giorni sono numerose le occasioni in cui si è sentito giustificare - in quest'Aula come in interviste televisive e sulla carta stampata - una intransigenza assoluta, insuperabile, in senso favorevole o contrario, a singole soluzioni normative contenute nel disegno di legge in esame, con l'appello a “principi non negoziabili”: da ultimo nell'intervento del Senatore Candiani e nell'intervista di oggi del Senatore Sacconi al Corriere della Sera. È questo, però, un concetto molto discutibile in sé, e che comunque mi sembra usato qui del tutto a sproposito.
Un grande maestro del diritto, giudice della Corte costituzionale e persona profondamente credente, Luigi Mengoni, insegnava che la differenza tra principi e regole sta in questo: mentre la regola prescrive un comportamento specifico preciso (“non si passa col rosso”; oppure “il salario minimo è di 6 euro”), il principio invece indica un valore che deve essere perseguito (tutela della vita, della libertà, dell’uguaglianza, della giustizia, ecc.). Dunque, mentre la regola ha un contenuto prescrittivo preciso predeterminato, il principio non ci dice esattamente come ci si deve comportare in ciascuna situazione: al contrario, lascia aperte diverse scelte pratiche attraverso le quali il valore può essere perseguito. Anche perché – e proprio qui sta il punto cruciale della questione – accade quasi sempre che nel caso concreto il principio da applicare non sia uno solo, bensì se ne debbano applicare al tempo stesso due o più di due. Si pensi per esempio alla necessità di conciliare il principio di tutela della vita umana con quello di libertà di circolazione: anche quella stradale, la cui pericolosità è in qualche misura ineliminabile; o il principio della libertà e segretezza delle comunicazioni con quello della punizione dei crimini. Quando è così, cioè quando si tratta di conciliare tra loro due o più valori, si impone un bilanciamento tra di essi. Il compito della politica è proprio questo: applicare al tempo stesso diversi principi, costituzionali e morali, trovando di volta in volta il bilanciamento migliore possibile tra i valori che essi ci impongono di perseguire.
In altre parole, se i principi fossero regole, la politica non servirebbe: essi direbbero compiutamente che cosa occorre fare di volta in volta in ciascuna situazione. Ma, appunto, i principi non sono regole; e poiché se ne devono applicare più d’uno alla volta, è compito dei politici, con l’aiuto dei tecnici e degli studiosi, discutere di quale soluzione, tra le diverse possibili, combini nel modo più soddisfacente i valori in gioco. Ci sarà sempre chi sottolinea maggiormente l’importanza di un principio e chi l’importanza di un altro; il bilanciamento tra i due comporterà dunque, in qualche misura, una negoziazione. In questo senso si può dire che… in linea di principio, non esistono “principi non negoziabili”.
Le possibili conciliazioni fra due valori, cioè le ipotesi ragionevolmente praticabili di bilanciamento tra di essi, sono sempre più di una; ma ciascuna di esse implica che nessuna delle parti politiche attribuisca valore assoluto a uno dei due principi, dichiarandolo “non negoziabile”. Perché così facendo si azzera l’altro. Dunque non si fa un buon servizio né alla Costituzione né all'etica. "La discussione pubblica - scrive lo studioso di scienza della politica Maurizio Ferrera in un suo intervento della settimana scorsa su questo tema - deve avere luogo in una cornice di laicità, tolleranza, rispetto reciproco e disponibilità al bilanciamento fra valori ultimi". Sempre - e qui cito un intervento di Salvatore Carrubba [pubblicato qualche giorno dopo - ndr] - sobbarcandosi l'onere di dimostrare il fondamento di eventuali differenze di trattamento con esigenze ragionevoli che nascono dalla differenza delle situazioni e assumendo come limite alla libertà degli uni la necessità che non ne derivi danno ingiusto ad altri.
Ecco: non sarei tra i firmatari del disegno di legge sulle unioni civili se non ne condividessi l'ispirazione di fondo, che consiste proprio in questo: cioè in un ragionevole bilanciamento tra i principi giuridici ed etici in gioco su questo terreno. Osservo però subito che, per quel che riguarda il riconoscimento delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, quel bilanciamento non è neppure necessario: non riesco proprio a vedere come il riconoscimento dell’aspirazione di due persone dello stesso sesso a un rapporto affettivo stabile possa, neppure indirettamente, attentare all’istituto familiare tradizionale. Un bilanciamento tra principi è invece necessario in riferimento alla disciplina del possibile rapporto genitoriale tra il figlio di uno dei partner e l’altro partner. Non vi è dubbio che la questione vada risolta privilegiando l’interesse del minore; ma altrettanto indubbio è che la realtà ci pone davanti a una infinita varietà di casi, tale per cui, anche quando si assuma l’interesse del minore come bussola principale, non si dà alcuna soluzione normativa che non presenti vantaggi in una parte dei casi e svantaggi in altri.
La complessità del fenomeno, dovuta all’infinita varietà della qualità degli adulti coinvolti, riguarda - sia ben chiaro - le coppie omosessuali tanto quanto quelle eterosessuali: quelle dannose o inadatte all’affidamento di minori ci sono sia tra le prime, sia tra le seconde. E la realtà quotidiana ci mostra una grande quantità di casi di minori allevati – a volte in modo straordinariamente positivo, a volte con carenze affettive anche gravi – da un genitore solo, uomo o donna, da sole donne non madri, e anche, sia pure più raramente, da soli uomini non padri.
Sono convinto che soltanto il metodo sperimentale consentirebbe di compiere, in questo come in moltissimi altri campi, la scelta migliore in tema di affidamento o adozione del figlio di un partner da parte dell’altro, massimizzando i vantaggi e minimizzando gli svantaggi. In attesa di un affidabile risultato di sintesi delle ricerche su questo punto condotte con metodo scientifico, la mia preferenza va alle soluzioni basate sul principio di cautela, cioè quelle dell’“affido rafforzato” biennale o fino alla maggiore età del figlio biologico di uno dei partner, purché - beninteso - si tratti di soluzioni riferite al tempo stesso alle coppie omosessuali e a quelle eterosessuali.
Se nessuna di queste soluzioni si rivelerà politicamente praticabile, l’attuale formulazione dell’articolo 5 del disegno di legge, che prevede anche per le coppie omosessuali l’adozione del figlio di un partner da parte dell’altro, senza periodo precedente di “affidamento rafforzato”, mi sembra accettabile come second best. Con l’auspicio che la questione venga riesaminata, per le coppie di entrambi i tipi, nel contesto della riforma organica dell’intera materia dell’adozione e dell’affido familiare, di cui il Parlamento dovrà occuparsi nei prossimi mesi.
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