Il caso delle unioni civili evidenzia un aspetto chiave del pensiero liberale in Italia: mentre i principi di laicità e tolleranza sembrano essere largamente condivisi, la preferenza per la libertà fatica ad essere assunta come opzione di default.

 

Nel dibattito sui temi eticamente sensibili il liberalismo consiglia di procedere in base a due principi. Il primo è essenzialmente metodologico o procedurale: la discussione pubblica deve avere luogo in una cornice di “laicità”, tolleranza, rispetto reciproco e disponibilità al bilanciamento fra valori ultimi. Il secondo criterio è invece sostantivo: il punto di partenza  deve essere la preferenza per la libertà “da”. Come spiegò magistralmente Stuart Mill, in uno spazio pubblico liberale l’assenza di costrizioni è l’opzione di default.

In practical matters[i.e. in moral, social and political matters] the burden of proof is supposed to be with those who are against liberty — those who contend for. . . .•any limitation of the general freedom of human action or •anything that denies to one person or kind of person any privilege or advantage that others have. The a priori presumption is in favour of freedom and impartiality. It is held that there should be no restraint except what is required by the general good, and that the law should. . . .treat everyone alike except where dissimilarity of treatment is required by positive reasons of justice or of policy. (dalle prime pagine di “The Subjection of Women”)

Parole chiarissime e lucidissime: per il liberalismo, l’onere della prova spetta a chi chiede e difende costrizioni, non il contrario. Mentre i principi di laicità e tolleranza sono oggi largamente condivisi (in questo senso sì, siamo tutti liberali), la preferenza per la libertà come opzione di default non è altrettanto condivisa. Siccome si tratta invece del vero e proprio quid sui della prospettiva liberale, è importante che tale preferenza venga chiaramente espressa e articolata nel dibattito pubblico. I liberali devono in altre parole dibattere sfidando le giustificazioni che altre tradizioni di pensiero adducono a sostegno delle loro preferenze “costrittive”. Non per delegittimarle o respingerle programmaticamente. Ma per testarne fino in fondo la loro ammissibilità rispetto all’opzione di default.

Prendiamo le vicende di queste settimane. Di fronte alla vigorosa riaffermazione da parte del mondo cattolico del proprio modello di famiglia (la famiglia “voluta da Dio”, per usare le recentissime parole di Papa Francesco), non è sufficiente ribadire le ragioni del pluralismo, rivendicare la neutralità dello Stato nei confronti di ogni fede, raccomandare conciliazione e compromesso (insomma, giocare di difesa più che di attacco). È necessario sottoporre gli argomenti giustificativi che si affacciano nel dibattito pubblico al “test della libertà”, avendo il coraggio di avanzare, se serve, qualche provocazione.

Proprio sui temi delle relazioni personali e sessuali i padri nobili del pensiero liberale non esitarono a muovere in questa direzione, lanciando provocazioni scandalose per i loro tempi. Bentham difese l’omosessualità come insindacabile “gusto” personale, mentre Stuart Mill (partendo dall’assunto sopra citato) denunciò il “giogo” delle donne nella famiglia e nella società. Nel mondo anglosassone il pensiero liberale ha assunto oggi un ruolo di punta non solo sulle grandi questioni politiche, ma anche su quelle che  riguardano la sfera privata.

Pur avendo a cuore (ovviamente) sia la procreazione biologica che la riproduzione sociale, il liberalismo non propone gerarchie fra modelli di famiglia. Apprezza e sostiene le unioni eterosessuali con figli, ma è aperto alla diversità, alla sperimentazione, alla reversibilità delle scelte e per questo tutela non solo le opzioni di entrata, ma anche quelle di uscita. Separazioni, divorzi, coppie di fatto non sono di per se stessi sintomi di “crisi”, ma solo di trasformazione della società: eventuali valutazioni morali vanno fatte caso per caso, in base a criteri di libertà, equità, rettitudine. Sul “riconoscimento” i liberali hanno una posizione intransigente: uno Stato laico deve garantire pari opportunità di unione (legale) a tutte le persone, a prescindere dal loro orientamento sessuale. Il riconoscimento pubblico è una questione di diritti, ma prima ancora di “rispetto”: il rispetto di sé e il rispetto che ciascuno deve all’identità e ai progetti di vita degli altri. Spesso il riconoscimento pubblico è pre-condizione essenziale per il rispetto, che è il più importante fra i beni sociali primari (per usare la nota espressione del filosofo liberale John Rawls).

Nello stato di natura esistono soltanto relazioni spontanee (affettivo-sessuali) fra persone, prevalentemente, ma non esclusivamente eterosessuali. E vale, ovviamente,  un invalicabile vincolo biologico: la procreazione avviene tramite la combinazione di geni maschili e femminili. Il matrimonio però è un "fatto istituzionale". Non riflette meccanicamente lo stato di natura, ma le pratiche sociali e le tradizioni culturali storicamente predominanti nella sfera pubblica. La grandissima varietà di simboli e diritti/doveri storicamente associati all’istituto del matrimonio conferma che le varie culture decifrano in modi diversi le relazioni “naturali”. Molti eterosessuali peraltro si sposano senza il progetto di fare figli o ben sapendo di non poterli (più) fare per ragioni biologiche. Negli ultimi decenni, pratiche sociali e valori si sono rapidamente trasformati e articolati. Nei Paesi OCSE quasi metà dei bambini nascono oggi fuori dal matrimonio.  Proprio in risposta ai mutamenti sociali, moltissimi governi hanno esteso il matrimonio alle coppie omosessuali. Nella UE l’hanno fatto Spagna, Portogallo, Francia, Gran Bretagna, Irlanda Lussemburgo, Belgio, Olanda, Danimarca, Svezia, Finlandia, Slovenia. Tranne che in Portogallo, tutti questi paesi consentono la stepchild adoption. Nei paesi che non consentono il matrimonio sono comunque possibili le unioni civili: Svizzera, Germania, Austria, Repubblica Ceca, Ungheria, Croazia, Grecia. Anche alcune confessioni religiose cristiane nel mondo anglosassone celebrano questo tipo di matrimoni. Se questa è la situazione nei paesi che appartengono alla nostra stessa “famiglia” dal punto di vista storico-culturale, come sorprenderci che anche in Italia vi sia una richiesta pressante di apertura? È certamente lecito pensare che la procreazione sia la quintessenza del matrimonio. È altrettanto lecito pensarla diversamente, senza per questo essere derisi. 

La visione eterosessuale del matrimonio ha definito nel tempo uno standard di “normalità pubblica” che isola simbolicamente gli omosessuali e limita le loro opportunità. In ottica liberale ciò solleva fondamentali questioni di giustizi a politica. Fino a che punto è lecito ad una maggioranza imporre la propria concezione di “normalità” ad una minoranza che chiede (con ragionevolezza) riconoscimento e tutele civili? In democrazia si discute, si contratta e poi si vota: la maggioranza vince. Quando sono in gioco i diritti fondativi della cittadinanza, il liberalismo raccomanda però molta cautela.

Le maggioranze non possono violare principi fondamentali della pari dignità e dell’eguale libertà. E in particolare non dovrebbero farlo in base a specifiche concezioni morali su cosa è “naturale” o appropriato nello spazio pubblico, che è di tutti. Questo modo di vedere non è, si badi bene, relativista. Discende da valori che un liberale considera fondativi dell’ordine politico: dignità e libertà, appunto. Nel caso del matrimonio omosessuale, questi valori sono peraltro invocati non a difesa di ideali “individualistici” (in sé peraltro legittimi) ma, al contrario, per istituire in pubblico nuovi legami sociali.

Opporsi alle unioni di partner dello stesso sesso significa violare due volte i principi liberali. Innanzitutto, s’impedisce l’esercizio di una importante libertà “di”: quella di “sposarsi” (il riconoscimento pubblico è anche una questione di parole) e di accedere a uno status giuridico che è indispensabile per realizzare altri obiettivi. L’orientamento sessuale non è un elemento moralmente rilevante per lo spazio pubblico, le discriminazioni basate su questo aspetto sono irragionevoli. Ma c’è una seconda violazione, meno visibile e più insidiosa. Lo status quo priva di fatto le coppie omosessuali di alcune importanti libertà “da”, il fondamento ultimo del liberalismo. I partner dello stesso sesso possono infatti subire interferenze nella loro sfera privata da parte di soggetti cui la legge conferisce maggiori od esclusivi diritti.

Pensiamo alla successione ereditaria (le prerogative dei “legittimari” prevalgono su quelli del partner), alla reciproca assistenza in caso di ricovero (i parenti possono ostacolare le visite o l’informazione), all’affido dei figli di uno dei partner in caso di morte (data l’impossibilità di adozione, la precedenza spetta ai familiari anagrafici). Per cambiare le cose non è sufficiente introdurre diritti individuali. Si tratta di libertà relazionali, che discendono da un legame di coppia. Solo il riconoscimento giuridico può rendere tale legame preminente rispetto ad altri in alcuni casi critici. In quello della stepchild adoption ciò che è bene per il minore (il punto di riferimento prioritario) va stabilito analizzando con cura il contesto specifico di quella bambina e il soggetto più attrezzato per farlo è un giudice dei minori: è a questo livello che devono essere bilanciate le possibili scelte, in base a “saggezza  pratica”. Ma fra le possibili soluzioni a disposizione del giudice deve esserci anche la stepchild adoption. In altre parole, il partner omosessuale deve diventare titolare di una facoltà (che in ultima analisi è un diritto di libertà) che oggi gli viene negata. Tale facoltà è ovviamente individuale, ma è derivata, è fondata sulla presenza di un legame di coppia. Per riconoscere questa facoltà bisogna inevitabilmente modificare quella parte del codice civile che riguarda il matrimonio e stabilisce i diritti dei coniugi. Ogni altra soluzione non rettifica la discriminazione in termini di libertà.

Ribadiamo un punto: tutti hanno il diritto di pensare e dire ciò che vogliono su omosessualità, famiglia, adozioni e così via. Quando si voterà in Parlamento, speriamo tuttavia che non si formi una maggioranza “tiranna”. Sprecando così una preziosa occasione per rendere questo paese un po’ più liberale.