Worldiness o worldlessness?
“Colui che, nel momento di una stasis nella città, non avrà preso le armi con una delle due parti, che egli sia privato dei diritti e che non abbia più in alcun modo parte alla città”: lo scrive Aristotele che, ne La Costituzione degli Ateniesi (VIII, 5), non usa mezzi termini nel suo commento alla legge solonica che puniva con l’atimia – la perdita dei diritti civili – il cittadino che in una guerra civile non avesse combattuto per una delle due parti.
Per i greci la stasis era tante cose: conflitto, guerra civile, movimento, agitazione, ma contemporaneamente anche immobilismo, posizione, quel particolare stato di calma apparente, ma sempre sul punto di esplodere, come nel caso di una polveriera o di una bomba a orologeria. Si potrebbe dire che tutto il mondo politico dell’antichità vivesse in questa costante condizione di stasis, e che la principale competenza dei leader autentici fosse quella di cercare di mantenere un costante legame della cittadinanza nel conflitto che agitava le comunità di appartenenza: in mezzo ai cittadini si era in primo luogo cittadini, oppure non si era nulla. Il termine è rimasto, oggi, nel nostro vocabolario, ma il linguaggio comune ne ha trattenuto solo il senso e la sostanza più modesti: statico è qualcosa o qualcuno di fermo, fisso, immobile, e stop. Nella scelta tra la worldiness – lo stare nel mondo – quel mondo comune, spazio pubblico proprio perché di tutti e di tutte, materia costante di discussione ma riconosciuto sempre come punto di partenza e di arrivo valido da parte di ogni soggetto che in quel momento lo abita, e la worldlessness[1] - la fuga dal mondo, quella predisposizione a non condividere con altri (se non con i propri simili e affini) cose, né istituzioni, né alcun sistema di significato, si gioca la partita della moderna e contemporanea civiltà, che occasionalmente tuttavia può prendere la forma di un referendum.
Non conoscere, né deliberare
La worldlessness-o-fuga-dal-mondo è stata sperimentata in tutti i periodi della storia occidentale, finanche giustificata nei tempi più bui e difficili, ma è diventata una condizione pervasiva della civiltà contemporanea. Perché? Che cosa significa, oggi, mondo? Che cosa è, oggi, pubblico?
In teoria il termine pubblico ha una doppia valenza: la prima é quella tipica degli oggetti che possono mostrarsi in piena 'luce', rendendosi generalmente avvicinabili ed accessibili ad altri. In questo primo senso, ‘pubblico’ corrisponde ad uno standard di realtà: qualcosa diventa vero nel momento in cui diventa intersoggettivamente riconoscibile; é vero ciò che é vero solo da diversi punti di vista. Lo spazio pubblico viene inteso come spazio dell'apparenza, come ciò che si mostra ed é suscettibile di essere guardato da prospettive diverse; la possibilità di disporre di tale spazio diventa allora una garanzia contro la coercizione, la riduzione della pluralità degli sguardi, in una parola contro ogni forma di autoritarismo.

Ma in teoria pubblico é anche il mondo stesso, in quanto appunto mondo comune:
“... in secondo luogo, il termine 'pubblico' significa il mondo stesso, in quanto é comune a tutti e distinto dallo spazio che ognuno di noi vi occupa privatamente. Questo mondo, tuttavia, non si identifica con la terra o con la natura... esso é connesso, piuttosto, con l'elemento artificiale, il prodotto delle mani dell'uomo, come pure con i rapporti tra coloro che abitano insieme il mondo fatto dall'uomo. Vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo é posto tra quelli che vi siedono intorno; il mondo, come ogni in-between, mette in relazione e separa gli uomini nello stesso tempo. La sfera pubblica, in quanto mondo comune, ci riunisce insieme e tuttavia ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a vicenda” (Arendt 1958)
La metafora arendtiana del tavolo rappresenta nel modo migliore l’idea di pluralità, cioè quella comunanza tra individui che preserva una separatezza: lo spazio pubblico, per esistere, deve essere contemporaneamente uno spazio di comunanza e di separazione tra le persone: dove non c'é pluralità di punti di vista sul mondo, non c'é spazio pubblico. Quando il ‘tavolo’ svanisce, quando cioè il mondo comune viene meno, è molto probabile che svanisca anche la possibilità concreta di stabilire legami politici.
Questa è la teoria: ogni politica si misura sul mondo comune – o spazio pubblico - che è in grado di stabilire. Il rischio, quanto più attuale oggi, è che in pratica, in uno spazio pubblico, per quanto democratico, conformità ed obbedienza possano prevalere su critica e dissenso, facendo così perdere a questo spazio uno dei suoi superpoteri, quello di illuminare a giorno il mondo, garantendo a ciascuno e chiunque una voce e un volto, e poi anche vite private, differenti ma irrinunciabili, e molteplici opportunità e possibilità.
La democrazia non è garanzia di libertà, si sa. Lo scontro tra autorità politica e libertà individuale in un regime democratico si traduce talvolta nel classico scontro tra governanti e governati, la cui posta in gioco può essere la protezione contro gli eccessi del governo, ma può anche essere la manifestazione dell’ambizione di autogovernarsi, o di avere voce in capitolo nelle regole costitutive del gioco della società civile, quelle regole che dicono come un gioco, anche quello della democrazia, deve essere condotto.
Il significato autentico di un referendum è precisamente quello di rivedere le regole del gioco, riconsegnando all’individuo l’intera tutela di se stesso. È una risorsa di libertà, un esercizio di responsabilità, è la traduzione pubblica del selbstdenken di Lessing, la capacità di “pensare da sé”, riflettere da soli, per poi deliberare insieme: il referendum è il social più importante per far sapere al governo come la pensiamo.
Umarèll[2]: i cinque quesiti del referendum 2025
Il referendum di giugno 2025 è ab-rogativo. Ciò significa che il suo obiettivo è permettere ai cittadini e alle cittadine di intervenire in forma diretta sulle leggi, correggendone o eliminandone parti (o anche, in alcuni casi, la legge intera) ritenute non più utili, o persino dannose. Abrogare significa eliminare, e nei referendum abrogativi si vota “sì” per eliminare, e “no” per conservare la legge così com’è. Il quorum – o quota - necessario perché la consultazione popolare sia valida prevede che voti la metà più uno degli aventi diritto[3].
In estrema sintesi: il quinto dei cinque quesiti del referendum di giugno 2025 riguarda i confini della cittadinanza che, secondo Lea Ypi[4], da veicolo di emancipazione universale è oggi diventata uno strumento di selezione economica e sociale: abrogando l’estratto di legge presente sulla scheda n. 5 si ridurranno da dieci a cinque gli anni di residenza legale richiesti a uno straniero extra-comunitario per ottenere la cittadinanza italiana. In questo caso, per la precisione, ci si limita a chiedere di ripristinare una situazione pre-esistente, perché dall’Unità d’Italia al 1992 erano necessari – per poter chiedere la cittadinanza (attributiva del diritto di voto) – cinque anni di residenza, saliti poi a dieci negli anni successivi.
L’aumento di garanzie in materia di lavoro è il tema degli altri quattro quesiti: il primo di essi intende abrogare le norme del Jobs Act del 2015, per tornare alla riforma Fornero del 2012, e riguarda la possibilità e le modalità di reintegro di lavoratori e lavoratrici; il secondo intende eliminare i limiti massimi al risarcimento del lavoratore o della lavoratrice, in caso di licenziamento senza giusta causa nelle piccole imprese (risarcimento ora fissato a 6/10 mensilità, a seconda della anzianità del soggetto in questione), il terzo quesito vuole eliminare la possibilità, da parte dei datori di lavoro, di fare contratti di lavoro a tempo determinato (12 mesi) senza una specifica causale, laddove l’ultimo dei quattro quesiti sul tema riguarda questioni legate alla sicurezza sul lavoro, e determina una responsabilità in capo al committente.

Sì, No, Astenuti?
Sulla base della considerazione che - in un referendum abrogativo - la partita si giochi tra i “sì” e le astensioni, si sostiene che chi va a votare debba raccogliere una doppia sfida: andare a votare, e convincere gli altri a non astenersi. L’astensione, infatti, data la logica di funzionamento di questo tipo di referendum – basata sul raggiungimento del quorum - farebbe ricadere gli astenuti nel campo dei “no” (diverso è il discorso per i referendum costituzionali, nei quali non è richiesto quorum).
Ma siamo davvero sicuri che sia questa la partita più importante da giocare, il prossimo 8 giugno? Io non credo. Innanzitutto perché - si potrebbe replicare - anche ritirare una scheda e restituirla non compilata significa contribuire al quorum. Ma perché dovrei recarmi al seggio, ritirare una o più schede, e restituirle non compilate? O ancora, perché dovrei recarmi al seggio, votare “no”, invece di andare a fare un pic-nic? Ecco, più ancora della materia del contendere, del contenuto stesso e della posta in gioco nelle schede (non a caso qui solo menzionate nelle loro linee principali), ritengo che sia la risposta alle ultime due questioni il vero nodo che questo specifico referendum invita a sciogliere, la reale opportunità da non perdere.
Benchè le cinque questioni sul tavolo non siano questioni da poco (tutt’altro, sono centrali per il vivere civile, e riguardano tutti, anche solo come orizzonti di senso), qui non si tratta di ‘male’ o di ‘bene’: qui si tratta di partecipazione e di controllo, anzi di controllo attraverso la partecipazione (l’umarèll, appunto).
Se si crede nella immediata connessione tra pensiero ed espressione; se si è convinti che in democrazia un pensiero vada gettato nel confronto con altri pensieri, e vada sempre messo alla prova nel libero confronto delle opinioni; se si è persuasi che la libertà di pensiero non sia né possa mai essere muta, e che nessuna opinione, per quanto sgradevole, offensiva, espressa in modi non graditi ai più, in modi cioè non educati, non debba essere zittita; se si ritiene che l’impossibilità di ridurre al silenzio opinioni sia immediatamente legata al fatto che, senza il confronto, la libertà di pensiero perde di senso, che il principio di libertà sia un principio aperto, e che ci sia democrazia dove esiste un vero conflitto di idee, e non un pensiero unico; se si è consapevoli della impossibilità di far tacere un’opinione che potrebbe essere vera, che potrebbe essere falsa, che potrebbe essere solo parzialmente vera, perchè viceversa significherebbe essere infallibili, e l’infallibilità non è di questo mondo; allora la mossa più importante diventerà quella di non lasciare che altri decidano per noi.
Sei arrabbiato? Vai a votare. Sei impegnato? Vai a votare. Vuoi astenerti? Vai a votare. Il lavoro di rielaborazione teorica e politica è un lavoro faticosissimo, che ci viene concesso tuttavia di rado, e non accettare di farlo significherebbe tagliare alla radice l’albero della legittimità. Per questa ragione penso che l’invito a non votare esplicitato dalle istituzioni crei qualcosa di più di un imbarazzo: non andare a votare significa rinunciare a decidere, essere passivi, accettare che altri scelgano per me e per te. Qualcuno potrebbe sostenere, peraltro, che abbiamo anche la libertà di non votare. Il voto, in fondo, non è una regola di condotta morale, l’astensione c’è sempre stata, ed è un diritto pari all’espressione di un voto favorevole o contrario. Altri potrebbero addirittura pensare che il referendum sia una scorciatoia. Ma sembra più plausibile temere che non raggiungere il quorum sarà una sconfitta per tutti e per tutte – i “no”, i “sì”, e gli “astenuti/e”, e che a perdere sarà, in quel caso, soprattutto la democrazia.
Conclusioni. Senza ringhiere
“Noi non stiamo dibattendo un problema di astratta filosofia, ma stiamo risolvendo un problema concreto di vita della nazione”
(Pietro Nenni)
La ragione per la quale l’Assemblea Costituente stabilì la soglia di raggiungimento di un “quorum” minimo di partecipanti al voto dipendeva dal fatto che la partecipazione politica nel 1946 era molto elevata (votava all’incirca il 95% degli italiani), e la nostra Costituzione assorbì precisamente dall’Assemblea l’idea del referendum come di uno strumento di espressione del pluralismo democratico: attraverso un referendum, cittadini e cittadine avrebbero potuto partecipare, - pensando con la propria testa, senza per questo possedere certezze definite una volta per tutte -, e contrastare le decisioni legislative approvate dal Parlamento. Il referendum è nato ed è stato pensato come un vero e proprio diritto, tutelato e garantito dalla carta costituzionale come correttivo della democrazia.
Quello che ci chiede un referendum – quale che sia la nostra posizione morale in un universo di disaffezioni crescenti- è un impegno nei confronti del mondo, perché è solo nella divisione condivisa che prende origine ciò che è comune.
[1] Per questi due termini così efficaci per indicare la nostra posizione nel mondo cfr. Hannah Arendt, Vita Activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1958.
[2] Termine emiliano che indica un pensionato, perlopiù anziano, che passa il tempo a osservare e commentare i lavori in corso, a ridosso del cantiere.
[3] Viceversa, nei referendum costituzionali – che hanno come oggetto modifiche alla Costituzione di un paese - non è necessario il raggiungimento di un quorum.
[4] Filosofa politica nata in Albania, laureatasi all’Università La Sapienza di Roma, e docente di teoria politica alla LSE (London School of Economics) di Londra. Il suo ultimo breve saggio è Confini di classe. Disuguaglianze, migrazione e cittadinanza nello stato capitalista, Milano, Feltrinelli, 2025.
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