Giorni fa il presidente iraniano, Hassan Rouhani, intervistato dalla Tv statunitense Nbc, ha detto: «L’Iran non ha mai voluto e mai vorrà una propria arma nucleare». Alla dichiarazione Obama, e a seguire i leader europei, hanno reagito con temperato entusiasmo. «Rouhani sta cercando di avviare un dialogo con l’Occidente in una maniera del tutto nuova. Seppur ancora da verificare», si è letto nella nota della Casa Bianca. Ora, lasciamo perdere che già Ahmadinejad si fosse espresso con parole simili. Non diamo nemmeno importanza agli interessi iraniani di avere o meno un arsenale nucleare per ragioni di prestigio regionale – di concorrenza a Pakistan e India, piuttosto che di supremazia sull’Arabia saudita – e non per attaccare Israele. Sorvoliamo anche sul fatto che l’opinione pubblica iraniana – tutta, nella sua integrità e fin dai tempi dello scià – sogna la sua atomica perché ne fa un punto di orgoglio nazionale.
Lasciamo perdere tutto questo. E concentriamoci sul perché oggi. Perché, con una guerra alle porte, Teheran sceglie la strada della collaborazione con il Grande satana? Perché di fronte alla bolla speculativa del conflitto siriano – in cui Russia e Stati Uniti fingono di essere tornati indietro di quarant’anni – Rouhani offre una mano aperta al suo nemico di sempre? E infine perché in Iran così pochi sembrano stracciarsi le vesti in difesa di Assad, lui sì amico e alleato?
1. Decisamente la presidenza Rouhani ha portato un cambio di passo al regime degli Ayatollah. Su quale sia la destinazione non è il caso di esporsi in previsioni. Tuttavia, va riconosciuto che, al tempo di Ahmadinejad presidente – unico leader laico e non “inturbantato” nella storia dell’Iran khomeinista – nessuno si sarebbe arrogato il diritto di dire «io ho la piena autorità per negoziare sul dossier nucleare con l’Occidente». Parole di Rouhani, queste. Parole che fanno pensare che il destinatario non fosse Washington, bensì la Guida suprema, Ali Khamenei. Ahmadinejad non si sarebbe mai permesso di parlare di un potere pieno nelle sue mani. Proprio perché il regime ha quella identità ibrida, tra laico e teocratico, in cui al clero sciita spetta l’ultima parola. Nella fattispecie Khamenei avrebbe potuto dire: «Aspetta, sono io che decido».
Il clima a Teheran sta cambiando. Forse per mano di Rouhani. Attenzione, non ci stiamo limitando a parlare di un addetto ai lavori. Il presidente iraniano è stato a capo dei negoziati con la Aiea, l’agenzia Onu per il nucleare. È un esperto del settore, un fine diplomatico, ma soprattutto un khomeinista zelota e devoto, che si è addossato un incarico politico senza precedenti. Con le sue dichiarazioni, ha voluto ricordare a Khamenei che, con lui, la presidenza non sarà più vincolata alla volontà della Guida suprema. I tempi di Ahmadinejad sono finiti. E Khamenei ha dovuto prenderne atto guardando una televisione Usa.
Sì, ma perché fare tutto questo ora? Perché nel frattempo liberare dieci detenuti politici, tra cui un riformista di fama internazionale quale Mohsen Aminzadeh, che sconta il carcere da tre anni? Possibile che a Teheran il passaggio ai nuovi tempi debba essere così accelerato?
2. Per quanto rigido e ortodosso sia il regime, non lo si può associare a una dittatura militare. O a un sistema totalitario. Violenza e repressione fisica sono strumenti a cui si ricorre, ma obtorto collo. Questo perché nel Paese il consenso rappresenta un elemento imprescindibile. Lo si è visto nel 2009. Nel momento in cui le elezioni presidenziali di allora sono apparse inequivocabilmente truccate, l’opinione pubblica è scesa in piazza. È stata zittita con i metodi più classici delle botte. Ma nessuno si è dimenticato quell’esperienza. Né le vittime né i carnefici.
Se alle presidenziali di quest’anno si fosse ripresentata una situazione in chiaroscuro come nel 2009, gli ayatollah difficilmente avrebbero potuto parare il colpo. Il riformismo di Rouhani e la sua disponibilità sul nucleare fanno parte di una strategia astuta di un gattopardo – poco mediorientale e molto asiatico – il cui fine è sopravvivere. Trasformarsi e adattarsi alle circostanze, pur di restare lì dove si è.
In un momento in cui il mondo islamico è attraversato da imperscrutabili venti rivoluzionari, il regime iraniano – che nasce esso stesso da una rivoluzione, ma non da una primavera dei popoli – ha pensato bene di evitare un “2009 Atto II”. Rouhani deve aver ripassato la biografia di Bismark, il quale, perché il potere restasse in mano agli Junker, diede il via a una politica fatta di previdenza, assicurazioni infortunistiche e via dicendo. Il cancelliere di ferro si mosse sul piano degli ammortizzatori sociali. Il leader iraniano ha scelto di rifarsi il maquillage in sede di politica internazionale. Il suo unico rischio è che si completi questa analogia storica. E cioè Rouhani sta a Bismark, come Khatami sta al Kaiser. E Guglielmo II, licenziando il cancelliere, portò la Germania sulla cattiva strada.
È un rischio che il presidente iraniano sembra voler correre. Anzi, la sua potrebbe rivelarsi una disinvoltura ancora maggiore. In un recente incontro all’Ispi di Milano, dal titolo “Il rebus Iran”, è emerso che gli Ayatollah non hanno interesse a morire nel bunker di Assad. Possono sostenerlo e armarlo. Possono confermare il loro pathos nei confronti dei siriani e ancor più dei miliziani di Hezbollah impegnati a combattere i salafiti tra Damasco e Homs. Ma non possono immolarsi per quella che l’opinione pubblica iraniana non considera una giusta causa. Libano e Siria sono amici dell’Iran. Ma non sono l’Iran.
3. Ecco spiegato il motivo di un intervento riformista ora. Damasco sta crollando, o comunque non naviga in acque tranquille. Teheran teme una primavera rivoluzionaria in casa, oltreché il completo isolamento geopolitico. La perdita della Siria comporterebbe la quasi cauterizzazione dei suoi interessi sul Mediterraneo. Fatta salva l’enclave sciita in Libano. D’altra parte perché morire tutti insieme? Il presidente siriano è un alleato, d’accordo. Ma sacrificarlo sull’altare della sopravvivenza potrebbe risultare necessario.
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