La recente visita del primo ministro cinese Li Keqiang in India riporta all’onore delle cronache il termine “Cindia”, il convergere degli interessi geo-strategici di Cina e India a scapito di quelli di Europa e Stati Uniti. Ma è corretto leggere nel viaggio di Keqiang a Delhi il segno di una simile convergenza?
1. La stretta di mano fra il premier cinese e il suo omologo Manmohan Singh il 20 maggio scorso ha siglato un accordo tale per cui, entro il 2015, gli scambi commerciali bilaterali tra Cina e India dovranno passare dai 65 attuali ai 100 miliardi di dollari. L’obiettivo non è una chimera. Viste le dimensioni di entrambi i mercati, e la loro tendenza a crescere (quantomeno demograficamente), non si può dire che i due governi stiano sovrastimando le proprie aspettative. È stato calcolato che, nello stesso anno dell’appuntamento commerciale fissato da Singh e Keqiang, la popolazione complessiva delle due nazioni avrà superato di gran lunga gli attuali 2,5 miliardi di unità. Dieci anni dopo, si prevede il grande sorpasso. Gli indiani saranno più dei cinesi.
Da anni si parla di Cina e India come dei due mostri asiatici intenzionati a mettere sotto scacco l’Occidente. Pil, popolazione, dimensione territoriale, spese in armamenti, vision di lungo periodo: tutto fa pensare che la Cindia sia a un passo dal realizzare il proprio impero. Le due nazioni sono giovani, dinamiche e iniettate di un ottimismo generato dal virtuoso trend economico percorso in quest’ultimo decennio, quando la loro produttività si è assestata oltre il 7% di crescita annua. Insomma, le due potenze “emergenti” dell’Asia posso dirsi del tutto emerse.
Sul fronte internazionale poi, la presenza di Pechino e Delhi nelle aree strategicamente più sensibili è un altro punto in favore della tesi per cui stiamo vivendo il secolo “cindiano”. Parlare di Cina e India in Africa, vuol dire tuffarsi in una bibliografia analitica corposa. Come pure sul versante asiatico. Non ci sono nell’area altri governi in grado di trattare con Afghanistan, Iran e Pakistan con la stessa forza.
Nel grande gioco del Terzo millennio, ai cinesi e agli indiani pare spettare un ruolo simile a quello che era stato assegnato dalla storia a russi e britannici nei round passati della stessa partita.
I mosaici tribali e confessionali che sono propri di Cina e India facilitano l’approccio con le nazioni dell’Asia centro-meridionale. La mentalità liberal degli inglesi (e poi degli Stati Uniti), come quella autocratica della Russia (zarista prima, comunista dopo), ha impedito il dialogo con la costellazione di etnie che compongono il panorama afgano. Come pure nei confronti della rigida teocrazia di Teheran. Tra popoli dell’Asia invece l’intesa è naturale.
2. Chi nutre dei dubbi sul convergere degli interessi di Cina e India fa notare come fra Pechino e Delhi non corra tradizionalmente buon sangue. L’inevitabile concorrenza generata dalla situazione attuale ha appesantito molti dei contenziosi mai sopiti, primo fra tutti una definizione inoppugnabile dei confini fra le due nazioni. Questo sia sui mercati internazionali che in termini strategici. La dottrina del “filo di perle”, che spinge Pechino a innervare d’infrastrutture i molti porti che si aprono sull’Oceano Indiano, è ancora perseguita come la sola davvero capace di aprire la Cina al commercio globale delle merci. A questa dottrina si contrappone una strategia di contenimento portata avanti dall’India con il placet di Washington.
Nel momento in cui l’India deve sfamare oltre 1,2 miliardi di cittadini è automatico che si debba confrontare con un soggetto omologo chiamato a risolvere le stesso problema per 1,3 miliardi di persone. È una questione di chi arriva primo ad accaparrarsi il maggior quantitativo di risorse alimentari, ma non solo, disponibili sulla terra.
Se poi alla fame si aggiunge l’ambizione di dominare la propria area di influenza, il concetto di Cindia si dimostra ancora più fragile. Sì, è lecito chiedersi se nel mondo ci sia abbastanza spazio per la Cina e per l’India qualora iniziassero ad agire in concerto. Ma vale anche la logica che spinge un paese a pensare che quando il nemico è troppo forte tanto vale farselo amico. È un adagio che suona come una massima di Sun Tzu e che trova ragion d’essere in quel dell’Asia.
La stessa logica potrebbe applicarsi alla partecipazione di entrambi i colossi asiatici al Brics, il forum delle potenze emergenti che vorrebbe strutturarsi come un’antitesi strategica alla terna Usa-Ue-Giappone. Chi bisogna effettivamente guardare con attenzione dei cinque Brics? Il Brasile, che comunque è un gregario sudamericano degli Stati Uniti? Oppure la Russia, che in qualunque modo si può definire fuorché nazione emergente? Nulla questio sul Sudafrica, che però è l’ultima ruota del carro. Alla fine sono Cina e India che nel Brics fanno la differenza. E non è certo un caso che né Pechino né Delhi intendano risolvere i problemi bilaterali tramite la mediazione di alcuno dei loro partner comuni. Chi si sente forte non va a chiedere aiuto agli alleati. Le frizioni con il vicino si gestiscono direttamente e in piena autonomia.
Tuttavia, la dipendenza di entrambi dal mercato occidentale, dalla cultura economica, politica e organizzativa di quest’ultimo, la loro mancanza di tradizione nel sistema capitalistico – e ancor più in termini di democrazia, diritti umani, trasparenza – ridimensiona sensibilmente la forza di Cindia. Forse c’è spazio per i cinesi e per gli indiani nel mondo. Ma il margine che intercorre tra i loro sistemi di governo e quelli occidentali – che cinesi e indiani prendono comunque a esempio – è ancora molto ampio.
Non si tratta di una questione esclusivamente economica. Ovvero dell’interdipendenza – per esempio – tra Occidente e Cina. Presupposto della globalizzazione è che tra competitors non ci si escluda. Perché, nel momento in cui il soggetto A viene estromesso dal mercato a beneficio del soggetto B, il primo a risentire del vuoto è proprio quest’ultimo. Tanto meno è il caso di addentrarsi in questioni morali. Il problema degli stupri, di cui sono continuamente vittime molte giovani indiane, non nasce oggi: emerge soltanto, perché i media internazionali ne stanno facendo un caso. Esso verrà risolto solo dopo un intervento strutturale sulla cultura e la mentalità della società indiana, da parte dell’India stessa.
3. La differenza tra Usa ed Europa da una parte e Cindia dall’altra è profonda. La crisi del nostro capitalismo è forse la peggiore della sua storia. Ma non è la prima. In passato abbiamo dimostrato di saper uscire da criticità anche maggiori. Questo significa esperienza. E l’esperienza è fondamentale per uscire dalle crisi.
Cina, India e con esse il Brasile, come pure il blocco dei paesi in via di sviluppo, stanno procedendo con velocità sicuramente incalzanti. Tuttavia il peso strategico di un soggetto non si misura esclusivamente in termini economici. L’efficienza di questi mercati si limita alla sfera produttiva. Democrazia, stato di diritto, libertà di stampa, uguaglianza tra i sessi, istruzione avanzata, disciplina del mercato del lavoro: sono solo alcuni dei nodi irrisolti che depotenziano il capitale economico accumulato. Infine, la mancanza di esperienze in qualche modo comparabili con quelle occidentali non permette di fare previsioni a lungo periodo. Mancano i termini su cui condurre il paragone.
È dunque il secolo in cui siamo entrati il secolo “cindiano”? Mancano ancora 77 anni al 2100. È davvero presto per azzardare previsioni di natura epocale.
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