All’apertura della corsa alla Casa Bianca colpisce la perdurante situazione di conflitto interna tanto ai Democratici quanto ai Repubblicani. In entrambi gli schieramenti, le candidature dei cosiddetti outsider mettono in forte difficoltà le vecchie élite di partito. Ammesso che esistano ancora.
Lo spirito dei tempi
“C’è una resistenza generalizzata a vincoli e legami un tempo considerati necessari alla società civile. La nuova razza è dura, impetuosa e ribelle; sono fanatici della libertà; odiano tributi, tasse, pedaggi, banche, gerarchie, governatori, e sì, quasi persino le leggi”, osservava nel 1856 Ralph Waldo Emerson, contemplando i suoi contemporanei e in particolare la fazione dei Locofocos del Partito Democratico, in una lezione, intitolata, appunto, The Spirit of the Times. La riflessione è da un certo punto di vista un refrain americano che va al di là dello spunto generazionale, una caratteristica strutturale della politica di quel paese - ritroviamo le stesse considerazioni sulla tendenziale arroganza dei cittadini statunitensi, della sfida alla competenza e all’autorità, del ribellismo innato, anche in Tocqueville. Ma in questi mesi dominati quasi istericamente dalle figure di Donald Trump e Bernie Sanders le parole di Emerson assumono un significato particolarmente attuale.
Quale sarà la sorte politica dei due candidati che sfidano esplicitamente le linee convenzionali dei due grandi partiti di cui fanno parte è cosa che si comincia a decidere ora. Ma il tema di questo articolo non è il successo o l’insuccesso delle ruggenti candidature dei due outsider, bensì quello che esse rivelano della consistenza dei partiti rispettivamente repubblicano e democratico. “Trump sfida l’establishment repubblicano”, “Sanders e Trump, candidati anti-establishment”, “presidenziali 2016, gli outsider sfidano l’establishment”. E, ora, infine, “L’establishment repubblicano si rivolta contro Trump”. La domanda è: esiste effettivamente una cosa chiamata establishment nel partito repubblicano americano, in quello democratico, e più in generale nella politica statunitense? Ce lo chiediamo non a caso in questi giorni, all’inizio della lunga corsa alla Casa Bianca, che di consuetudine si tiene tra caucus e primarie in Iowa (1 febbraio) e in New Hampshire (9 febbraio). A pochi giorni dal voto, accade che i giornali e le riviste di informazione “di area” provino a reagire. Conservatori contro Donald Trump, liberal contro Bernie Sanders: possibile?
Fuoco amico
Il miliardario newyorkese candidato per i Repubblicani (che continua a vagliare l’opzione della candidatura indipendente) è stato oggetto di un forte attacco da parte della rivista istituzionale del conservatorismo americano: la “National Review”, fondata da William Buckley nel cuore del dopoguerra dominato culturalmente dai liberal del “centro vitale” così com’era stato disegnato da Schlesinger. Una palestra di ragionamenti sul conservatorismo americano, nel segno della dialettica e del confronto, che poggiava le sue basi su un pubblico di lettori mainstream conservatori. Adesso, mentre il gradimento di Trump nel GOP non accenna a scendere e il candidato resta saldamente in testa, la NR comincia a preoccuparsi. “Against Trump” si intitola l’editoriale del 21 gennaio, che definisce il tycoon una “minaccia al movimento conservatore”, con motivazioni di questo ordine: ragione versus isteria, preparazione versus incompetenza, cultura versus ignoranza.
A sua volta, il “socialista” Bernie Sanders è stato criticato dal giornale-bandiera del progressismo statunitense, “The Nation” sui temi sociali. La “vera debolezza” del candidato alle primarie democratiche, ragiona il giornale, è che egli ruggisce (giustamente) come un leone sulle diseguaglianze economiche, ma è timido, a volte persino polemico, su temi di liberalismo sociale quali gender e diritti delle donne. “The Nation” fa riferimento a una recente polemica di Sanders con Planned Parenthood, l’associazione finanziata dallo Stato che promuove informazione e assistenza alle donne in tema riproduttivo e abortivo, e che dopo quasi cent’anni di attività è sotto l’attacco quotidiano dell’ala più integralista della religious right e del partito repubblicano. Parlandone con Rachel Maddow, Sanders ha criticato il gruppo. Perché lo ha fatto? Non solo, come scrive “The Nation”, per propri limiti culturali. Ma anche perché, definendo Planned Parenthood e lo Human Rights Fund (che si occupa di tematiche legate al mondo LGBT) “parte dell’establishment”, ha voluto collegarli direttamente (e populisticamente) a Hillary, considerata l’emblema del potere e delle consorterie inossidabili del partito.
La società chiusa
Sanders non è Trump. Ma a ben pensarci, pone al proprio partito problemi non lontani dalla sfida dell’imprenditore, che cavalca ossessioni di chiusura delle frontiere e un gusto speciale per la presa di posizione polemica, spettacolare, a volte pittoresca. In modo speculare tra i due campi, le primarie che si stanno aprendo vivono di fantasmi di irrigidimento, da società chiusa; le élite che hanno governato in passato i partiti faticano a governare questi movimenti, e in questa acerba stagione le presidenziali sono ancora ferme alle rese dei conti interne ai due grandi schieramenti. Se il Partito Democratico ha dei problemi, quello repubblicano, in proporzione, è completamente allo sbando. Anche Ted Cruz, l’unica (al momento) reale alternativa in campo repubblicano a Trump, sebbene impegnato in politica da più anni è pur sempre l’alfiere di un movimento che è nato esternamente al partito, il Tea Party.
Ma se tutti sono “esterni all’establishment”, viene da chiedersi: esiste ancora una cosa chiamata establishment? No, probabilmente. Come nota John Podhoretz, non esiste establishment repubblicano, almeno da quando George Bush Sr. perse le elezioni nel 1992. “È esistito un tempo in cui si poteva non essere conservatori senza per questo essere dei liberal”, scrive Podhoretz, pensando a quella generazione di Repubblicani (forse il simbolo maggiore potrebbe essere Eisenhower) che avevano una naturale affiliazione reciproca, frutto più della appartenenza a un milieu comune (istruzione, risorse economiche, origini familiari, viaggi, professioni) che di una organizzazione partitica, che d’altronde in America non è mai esistita come la intendiamo noi Europei. Erano dei moderati: credevano nel libero mercato ma non per questo aderivano a strampalate dottrine più simili a fedi che a teorie; nutrivano una visione “tradizionale” della società ma non ne ripudiavano tutti i cambiamenti; aderivano al protestantesimo mainline, in una visione che cercava di conciliare la vita religiosa con l’ideologia liberaldemocratica, nel solco di Reinhold Niebuhr; essenzialmente pensavano alla politica come alla diplomazia: uno spazio di compromesso e di mediazione.
Lo spirito dei tempi era quello. Poi sono venuti, in questi trenta turbolenti anni, i teologi del libero mercato (quante somiglianze con la descrizione dei contemporanei che fece Emerson), i teaparties, la destra religiosa, quelli che guardano a Planned Parenthood come a un’agenzia demoniaca, i cristiani rinati, i Newt Gingrich e le Sarah Palin, una miriade di gruppi, gruppuscoli, sette e tribù, e ora semplicemente, inevitabilmente, Donald Trump. C’è poco da invocare l’establishment, perché l’establishment non esiste più. Il partito ha perso la sua testa molto tempo fa.
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