A due mesi dall’inizio del 2016 torna di attualità il Quantitative Easing (QE). A chiedere un cambiamento di passo, nel senso di un aumento della sua importanza in Europa sono in primis gli investitori sui mercati, diventati volatili e nervosi a seguito del peggioramento delle condizioni dell’economia globale dall’inizio dell’anno.
Sul finire di febbraio 2016 Mario Draghi avrebbe non più di due settimane per decidere di varare le ulteriori facilitazioni promesse. I mercati si aspettano decisioni e non si accontenteranno di semplici dichiarazioni. Si attendono un aumento del numero dei titoli acquistati, della loro varietà e qualità (per esempio obbligazioni emesse da privati e con rating anche non primario). C’è chi immagina che potrebbero anche cambiare i pesi della distribuzione nazionale degli acquisti di titoli. Più titoli dei paesi più indebitati, per esempio, anche se per realizzare tale proposito non basterebbe una decisione del Presidente della Bce.
i sono, in secondo luogo, 19 economisti, che circa un anno fa scrissero in una lettera al Financial Times che la soluzione alla persistente stagnazione delle economie sviluppate starebbe nella “moneta lanciata dall’elicottero”.
L’idea è semplice: le banconote sono una passività su cui la banca centrale non paga interessi, quindi potrebbe produrle e semplicemente regalarle ai cittadini (che in ultima istanza sono i proprietari della banca centrale). Questi potrebbero spenderle; oppure potrebbero utilizzarle per pagare i debiti eccessivi (e spendere il reddito). Potrebbero anche risparmiarle e la liquidità così prodotta potrebbe ritornare sotto forma di riserve depositate dalle banche, ma la minaccia sarebbe disinnescata dai tassi a zero (ZIRP) o addirittura negativi (NIRP).
Una forma di QE simile all’elicottero, ma specializzata per la destinazione della nuova moneta stampata all’investimento nei beni collettivi o sociali che il mercato non produrrebbe o produrrebbe a prezzi inaccessibili per le persone è il People’s QE. Lanciato dal leader Labour Corbyn, è ormai preso in decente considerazione anche nelle stanze della Banca d’Inghilterra.
Il Centro Einaudi aveva previsto la relativa inefficacia del Quantitative Easing attuale della BCE e aveva lanciato alcuni mesi fa un’idea per certi versi simile al Quantitative Easing di Corbyn, basato sull’acquisto di titoli della Bei, emessi a fronte di investimenti in crediti di lungo termine concessi alle autorità locali dell’eurozona e destinati alla realizzazione di spesa per investimenti (come quella negli asili, per fare un esempio).
Il G20 che si è riunito in questi giorni in Cina, ha rilanciato la necessità di espandere il Quantitative Easing insieme al varo di stimoli fiscali da parte dei paesi che se lo possono permettere. Non è un’idea generale, però. Il ministro dell’economia tedesco, Wolfang Schauble, si è espresso in modo contrario al mix di politiche basato su espansioni monetarie e fiscali, sui tassi negativi e sulle svalutazioni competitive. Nella migliore delle ipotesi porterebbero alla “zombizzazione delle economie”.
Il pensiero di Schauble è più o meno il seguente: non si può alzare il tasso di sviluppo del Pil oltre il livello che è consentito dalla crescita della produttività e dalla crescita dei fattori. Se queste cifre si muovono modestamente è per effetto delle forze della stagnazione secolare e per contrastarle serve riformare l’economia e la società, non stampare più moneta. Dalla crisi, insomma, non si rientra con le scorciatoie.
Schauble ha almeno in parte ragione, se non altro perché la prima economia zombie c’è già: è quella del Giappone, il cui debito pubblico è del 260 per cento, ossia irrestituibile. Il QE della banca centrale giapponese le fa comprare con nuova moneta non solo le obbligazioni dello stato, ma anche i titoli azionari e perfino le quote dei fondi immobiliari privati. I tassi giapponesi sono inoltre negativi, mentre l’inflazione è sopra lo zero e sfiora il due per cento. Tutto bene? No, perché il Pil nell’ultimo trimestre è tornato a far segnare una variazione negativa.
Il nostro pensiero sul Quantitative Easing è che esso sia gravido di effetti collaterali e di rischi. I principali rischi del QE tradizionale, che compra i titoli obbligazionari statali, sono: (a) l’inflazione (ossia l’aumento dei prezzi) degli strumenti finanziari e con essa l’accentuazione degli effetti di polarizzazione della ricchezza (se ne avvantaggiano due volte i ricchi, per i maggiori prezzi delle attività possedute e, avendo beni da dare a garanzia, potendo levereggiare gli investimenti quasi senza costi), (b) il rallentamento delle ristrutturazioni necessarie per riallocare il capitale dai settori in declino a quelli emergenti, (c) la modestia dell’impatto effettivo sulla domanda finale di beni.
Soprattutto quest’ultimo effetto rischia di rendere il QE “permanente”, condannando definitivamente il mercato dei tassi di interesse ai valori nulli o negativi. E qui si arriva al ragionamento finale: (d) se i tassi di interesse sono persistentemente nulli, il risparmio cessa di avere un rendimento. I fondi pensione non possono accumulare i montanti necessari per pagare le pensioni. Le famiglie devono aumentare la propensione al risparmio per far fronte alla terza età. L’impatto sulla domanda finale dei beni diventa così l’esatto opposto di quello atteso. Proprio come in Giappone.
Restiamo pertanto contrari a un Quantitative Easing come quello che l’eurozona ha adottato fino ad oggi e che ci mette su un sentiero paragonabile a quello del Giappone. Non saremmo invece contrari a un Quantitative Easing temporaneo e fortemente correlato alla domanda reale. Pur prendendo le distanze dalla moneta lanciata dall’elicottero (che rischia di rendere i tassi negativi permanenti), il Quantitative Easing efficace è solo quello che riesce a spendere nell’economia reale, massicciamente e in un arco di tempo definito e concentrato, i flussi di nuova moneta che sono creati. A ben vedere, l’esperienza più favorevole (e forse l’unica favorevole) di Quantitative Easing è stata quella americana, che ha finanziato nell’anno seguente il crack di Lehman una espansione del bilancio pubblico pari a un deficit del 10 per cento del Pil. Questo ha dato una spinta alla domanda finale autonoma dal reddito, rimettendo l’economia sulla traccia di una crescita che l’Eurozona ha mai ritrovato. Le ondate dopo la prima del Quantitative Easing americano hanno avuto un altro scopo: il QE2 è servito a creare il denaro che occorreva agli Stati Uniti per sostenere il tasso di investimento in un contesto di calo del tasso di risparmio aggregato e di fuoriuscita dei capitali dal dollaro. La fase finale del QE americano, il cosiddetto QE3, ha prodotto invece solo “danni collaterali”, come quelli sulla inflazione degli asset e sulla distribuzione della ricchezza indipendentemente dal merito. Danni che i mercati finanziari hanno incominciato a riassorbire, ed è un bene che sia così.
Vedremo nelle prossime due settimane quali saranno le decisioni della Bce. Più esse saranno coraggiose nel legare il QE all’economia reale degli investimenti e della spesa, più il QE sarà temporaneo e di successo. In caso opposto, correremo il rischio della sindrome giapponese.
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