1. Si è detto tutto e il contrario di tutto sul programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano "Quello che (non) ho". Si tratterebbe per alcuni del ritorno alla televisione intelligente che resiste (resiste, resiste), per altri del solito, indigeribile, brodino buonista.

A me pare piuttosto uno specchio dei tempi. Quello che il programma ha mostrato è lo stato dell'arte in un momento storico, il nostro, in cui tutto pare sull'orlo di un precipizio. E non è un bel vedere.

2. Innanzitutto il problema Saviano. L'autore minacciato di morte dalla camorra ormai veste con disinvoltura i panni del parresiarca, di colui che dice la verità a sprezzo del pericolo. Purtroppo la verità che proclama è tutt'altro che nuova e quindi l'atteggiamento di chi intende svelarla come se fosse una rivelazione non convince. Spiace che Saviano debba vivere sotto scorta (spiace davvero), ma non per questo dobbiamo sentirci in dovere di temere per la sua vita quando, ad esempio, rivela che la malavita organizzata meridionale opera anche al Nord. Lo sappiamo già, almeno dai tempi delle scuole elementari. Quando il parresiarca ci sciorina per ore banalità come se fossero paurose rivelazioni, il risultato non è il risveglio dell'indignazione morale, ma lo sconcerto.

3. "Quello che (non) ho" è un programma in cui i protagonisti dovrebbero essere le parole. Secondo gli autori quello che infatti manca oggi sono le parole con cui afferrare la realtà. La recita di Saviano riduce all'assurdo l'intento del programma vendendoci l'uso di parole esauste per atti di inaudita resistenza civile. Il risultato non è edificante, ed è un peccato. Perché è proprio vero che ci mancano le parole con cui descrivere la realtà dei nostri giorni. E se manca la capacità di descrivere una situazione ci mancherà anche la possibilità di migliorarla o anche solo di modificarla.

Ma la colpa del fallimento di "Quello che (non) ho" non è solo della parresia simulata da Saviano. Tutte e tre le puntate del programma trasudavano cadaverina. Cantautori che si pensavano morti sono stati riesumati per dire cose che definire trapassate è un eufemismo. Scrittori in foulard che snocciolano parole arzigogolate e discorsi accademici che andavano di moda in Francia una trentina d'anni fa. Il tutto infiocchettato da una bravissima Littizzetto nel pieno della suo vena umorale, nel senso meno nobile del termine. Quante volte si può rimanere basiti davanti all'uso della parola ‘stronzo’ in prima serata senza percepire un senso di vuoto incipiente? Va bene, ha detto parolaccia davanti a milioni di telespettatori. E con ciò? Così l'umorismo della Littizzetto fa il paio con la parresia di Saviano. Due simulacri che racchiudono il vuoto.

4. Chi non ricorda (con orrore) il tema in classe, il cui titolo cambiava sempre per poter rimanere invariato: "Scrivete con parole vostre alla maestra ciò che sapete le fa piacere leggere, che vedrete vi darà un bel voto." Compilando "temini" intere generazioni di italiani hanno mosso i primi passi sul terreno instabile del conformismo. Oggi la televisione italiana è piena di adulti che leggono temini a voce alta, quasi che ci fosse in atto una generale regressione all'infanzia.

Vi ricordate quale visibile piacere dava alla maestra ascoltare in classe la lettura dei temi migliori? Oggi Santoro fa da maestra a Travaglio, che fa il primo della classe, e Fazio fa da maestra a Saviano che fa il figliol prodigo. Come si sia arrivati a questo punto ci sfugge e in fondo non ci interessa, ma un tempo i giornalisti televisivi si mettevano da parte per lasciar parlare le immagini, cioè i fatti. Oggi i fatti sono la loro immagine e la loro immagine si riflette sulla superficie della palude televisiva come lo specchio di Narciso. Per chi guarda da casa, per il telespettatore, non è un bel vedere.   

5. Tutto questo sarebbe irrilevante se non fosse lo specchio di un qualcosa di più profondo che riguarda tutti. Gli autori di "Quello che (non) ho" hanno ragione. Senza parole non c'è realtà, non c'è progetto, non c'è azione, non c'è nulla. Questa è la più grande scoperta del secondo dopoguerra del Novecento, quando a poco a poco si fece avanti l'idea che per cambiare il mondo occorresse cambiare discorso. Non è perché si è passati dal dire 'negro' al dire 'Afro-Americano' che negli Stati Uniti un nero è diventato presidente. Ma se non si fosse deciso di cambiare discorso e di escludere tassativamente l’uso di parole all’epoca correnti non si sarebbe mai giunti ad eleggere un nero alla presidenza.

Le parole sono i fatti e i fatti sono interpretazioni che le parole possono cambiare in meglio. Se non si posseggono le parole per descrivere una realtà di fatto quella realtà non potrà essere affrontata se non nei termini già consunti dall’uso. Dire che la soluzione della crisi europea non è l'austerità ma la crescita è un tentativo di ridescrivere la realtà usando parole vecchie. Non ne viene fuori nulla. Per andare avanti dovremmo usare parole nuove, più adatte ai tempi e finalizzate alla rimozione dell'ostacolo discorsivo che ci impedisce di immaginare un futuro diverso.

Fazio e Saviano mostrano come uno dei più grandi problemi che l'Italia deve affrontare è l'esaurimento delle parole 'di sinistra', che si accompagna al già constatato esaurimento delle parole 'di destra'. Chi riuscirà a forgiare un nuovo e più adeguato vocabolario riceverà in eredità il compito di pensare il futuro.

Speriamo solo questa persona non debba essere un comico. Non ci sarebbe nulla da ridere visto le incontenibili pulsioni autoritarie del comico in questione. La storia si ripete sempre due volte, diceva Marx. La prima come tragedia, la seconda come farsa.

Cambiamo discorso prima che questa storia prenda una brutta piega.