La nostalgia repubblicana per un’America (e un leader) che non ci sono più

Grazie al bel film di Phyllida Lloyd su Margaret Thatcher e alla straordinaria performance di Meryl Streep tutti si sono ricordati che quella minuta vecchietta che compare saltuariamente nelle pagine dei tabloid britannici, piegata dal peso degli anni, si è un tempo chiamata Iron Lady. Colpisce che ancora nessun film sia stato prodotto su Ronald Reagan, comprimario della Thatcher sulla scena degli 80s e anche lui, alla fine, vittima di una dolorosa malattia della memoria, che gli cancellò piano piano i ricordi, così trasferendolo in quel mondo ovattato e sognante che lui stesso aveva creato come set perfetto per la propria narrazione politica. Forse tale mancanza è un segno di quanto l’America stenti a voler consegnare un’esperienza politica alla storia.

Se un film verrà mai fatto su Reagan, è certo che mai potrà contare su un formidabile appellativo come “Iron man” o “Iron President”, perché il presidente americano non fu mai chiamato così. Nel caso di Reagan basta Ronnie, il diminutivo del suo nome, e questo non è un caso. Segnala infatti un’intimità con le persone e gli elettori, una bonaria affezione, una familiarità che non smisero mai di farlo apparire come l’uomo della strada, il rappresentante naturale, antropologico tanto quanto ideologico, di una nazione del buon vicinato e delle piccole comunità, con una innocua adesione ai valori classici del credo americano.

L’identificazione di Ronnie con il suo elettorato è sempre stata fortissima. Mentre la sinistra progressista si era avvantaggiata, in forma reticolare e razionale, dell’urbanesimo, dei campus universitari, delle nuove infrastrutture pubbliche, persino dell’esercito, l’avanzata conservatrice degli anni Settanta e Ottanta è geograficamente dislocata altrove: nei piccoli centri, nel mondo rurale, nelle praterie immense, a bassa densità abitativa, dove il senso di un ethos che promani dal contesto ambientale, dall’isolamento, dalla contemplazione, ha la meglio; ma anche nelle periferie e nei sobborghi di recente urbanizzazione, nati a seguito dei grandi spostamenti del secondo dopoguerra[1]. E il tipo di affiliazione espresso da questo mondo è emotivo, istintivo prima che razionale: come direbbe Marco Pannella, il rapporto che esso intrattiene con la politica segue il modello Vandea. E’ rivolto cioè a una socializzazione della politica, piuttosto che a una politicizzazione della società[2].

A questa corrispondenza naturale e istintiva, “antropologica” appunto, si somma poi una componente più strettamente economica: la supply-side economics, il modello economico adottato da Reagan, privilegia accanto alla retorica della detassazione e della non-intrusione governativa un marcato aumento delle spese per la difesa. Lo Stato spende per la guerra e per l’arsenale bellico, per l’esercito e per le sue installazioni, così dando avvio a un importante indotto, a un’economia che fiorisce intorno alle basi e alle zone che accentrano quelle funzioni. Le quali, come si sa, sono spesso collocate nel Sud, dalla Florida di Cape Canaveral al Texas, al deserto del Nevada. Tutte zone capofila della rivoluzione reaganiana.

Ma qui sorge un problema. La sun belt non è solo la fascia dell’aeronautica militare, ma anche quella della nuova economia hi-tech, delle migliaia di piccole imprese di software della South Carolina così come della Silicon Valley in cui sono nati gli imperi Apple e Microsoft. E questo mondo esprime valori e posizioni differenti: da trent’anni chiede allo stato meno regole, chiede alla politica un dinamismo nuovo e un’attenzione premiante nei confronti dell’innovazione, della competenza. Un afflato dunque opposto rispetto all’inata fiducia nello Stato dei settori della difesa. E che dire poi del Sud “classico”, conservatore e fondamentalista (tutt’altro che scomparso o irrilevante)?

Insomma, sotto la stessa etichetta di “cintura del Sud” si raccolgono più Americhe, con istanze diverse, che la cifra innanzitutto umana di Ronnie permise di tenere insieme, forgiando una coalizione vincente. Ma i repubblicani di oggi non sono Reagan: e il voto odierno del Nevada, dove Romney trionfa nei grandi centri urbani, Gigrich vince di misura nella sterminata ruralità del deserto, e Ron Paul si afferma con successo nella contea plasmata dall’esercito dell’ “Area 51”, ne è la lampante dimostrazione. La sun belt  non esiste più, al suo posto ci sono quindici, venti diverse americhe; e continuare a misurarsi con l’esempio, le parole, la figura reaganiana, come fanno ossessivamente i candidati del GOP oggi, potrebbe essere non solo stucchevole. Potrebbe essere inutile.



[1] Robert Lang, Thomas Sanchez, Alan Berube, “The New Suburban Politics”, in Ruy Teixeira, a cura di, Red, Blue and Purple America, p. 50.

[2] Roberto Chiarini, “Il disagio del Nord, l’anti-politica e la questione settentrionale”, in Colarizi, Craveri, Pons, Quagliariello, a cura di, Gli anni ottanta come storia, p. 259.